Uno Stato dell’UE non può rimpatriare un cittadino di un Paese extra UE

Corte di Giustizia dell’Unione Europea Grande Sezione: impossibile rimpatriare lo straniero irregolare malato grave se in patria non possono curarlo. Escluso l’allontanamento del cittadino russo che ha il cancro: la Federazione non ammette la cannabis terapeutica. Il Paese UE deve garantire un esame concreto sulle condizioni del richiedente. La Corte Europea ha stabilito che uno Stato non può rimpatriare un cittadino extraeuropeo se soffre di una grave malattia che il rimpatrio comprometterebbe
Nelle ultime settimane il tema dei migranti e delle migrazioni irregolari è tornato prepotentemente ad occupare la discussione politica nazionale e internazionale. Oggi un’importante sentenza della Corte Europea ha riportato l’attenzione sul tema stabilendo che uno Stato dell’UE non può rimpatriare un cittadino di un Paese extra UE, immigrato irregolare, nell’ipotesi in cui soffra di una grave malattia e se ci sono «comprovati motivi» che il rimpatrio possa esporlo ad un aumento «significativo e irrimediabile» del dolore causato dall’infermità di cui soffre. A stabilire questo importante principio – che specialmente in questo periodo storico chiarisce in modo netto cosa uno Stato membro può o non può fare in questa specifica circostanza – è stata la Corte di Giustizia dell’UE. Nello specifico, secondo la sentenza, non si può espellere l’extracomunitario irregolare se in patria non possono sottoporlo alle terapie somministrategli nel Paese dell’Unione europea in cui si trova. Va interpretata in tal senso la direttiva 2008/115/CE: l’allontanamento va escluso se lo straniero tornando a casa «rischia di essere esposto a un aumento rapido, significativo e irrimediabile del dolore». È il caso del cittadino russo affetto da una rara forma di cancro nel sangue che è curata nei Paesi Bassi con la cannabis a fini analgesici: le autorità di Mosca, infatti, non ne consentono la somministrazione terapeutica e col rimpatrio l’uomo rischierebbe gravi sofferenze. È quanto emerge dalla sentenza pronunciata il 22 novembre nella causa C-69/21 dalla Grande sezione della Corte di giustizia europea. È il tribunale dell’Aia a rivolgersi ai giudici del Lussemburgo. Il cittadino russo chiede alle autorità del Regno olandese il permesso di soggiorno o quanto meno un rinvio dell’allontanamento: interrompere la terapia col ritorno in patria – deduce l’interessato – equivarrebbe a perdere una vita dignitosa. E il diritto UE vieta l’espulsione dello straniero malato quando ci sono «gravi e comprovati motivi» per ritenere che non vi siano nel Paese d’origine cure adeguate per la patologia sofferta. Nella specie il fatto che la terapia analgesica in Russia non possa essere somministrata legalmente potrebbe esporre il richiedente a un dolore di tale intensità da risultare in contrasto con la dignità umana, da provocargli disturbi psichici irreversibili o addirittura portarlo al suicidio. Ciascuno Stato UE, poi, può fissare soltanto un termine puramente indicativo entro il quale deve prodursi l’aumento del dolore per lo straniero da considerare ai fini dell’allontanamento: sono dunque esclusi automatismi, mentre l’autorità nazionale competente deve essere posta in grado di esaminare in concreto la situazione di salute dell’interessato. Non basta invece che la mancata somministrazione in patria della terapia penalizzi il richiedente nelle relazioni sociali al ritorno a casa: lo stop all’allontanamento scatta soltanto con il pericolo di trattamenti inumani o degradanti. Al di là dei fatti di cronaca, anche in Europa, rileva Giovanni D’Agata, Presidente dello “Sportello dei Diritti”, ci si sta interrogando sulla struttura dell’accoglienza e su come riorganizzare la gestione di chi lascia il proprio Paese per raggiungere i paesi dell’UE.

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