Il lato oscuro di Colombo (1a parte)

“L’ammiraglio era un uomo ben piantato, di statura più alta della media, dal viso allungato, le guance segnate; di corpo né sottile, né robusto. Aveva il naso affilato e gli occhi chiarissimi; d’incarnato anch’esso molto chiaro, con talvolta un tocco di rosso. In gioventù, i suoi capelli erano biondi, ma fin dai trent’anni diventarono bianchi. Nel bere e nel mangiare, negli abiti, si è sempre mostrato ragionevole e modesto”. Il figlio Fernando, avuto da una convivenza, dopo la morte prematura della moglie, così lo descriveva.
Il personaggio che vive in queste pagine è frastagliato e movimentato, la cui grandezza storica nasce, insieme, da un’ardita fantasia e da una volontà inattaccabile. Eppure, l’energia morale che lo porta persino ad essere impietoso, soprattutto con sè stesso ed il destino che, alla grandezza aggiunge un connotato di rilievo per una triste fine, fanno sì che l’importanza dell’uomo sia superata dalla forza della sua impresa.
Di Cristoforo Colombo (Cristóbal Colón per gli spagnoli; Cristóvão Colombo per i portoghesi), esistono alcune biografie deliberatamente romanzate e, a modo loro, anche gradevoli. La vita del navigatore è sempre stata trattata come una “fiction”: le nebbie sulla sua nascita, il duro mestiere, la solitudine interiore, il fantastico disegno, gli intrighi ed i rischi di due Corti Reali, quella portoghese e quella castigliana, il prodigioso navigare, il trionfo, i ritorni, i passi indietro, il declino iniquo, l’ultimo tragico viaggio, da Siviglia a Segovia, per raggiungere i Sovrani, un viaggio che non concluse, poiché la morte lo colse a Valladolid, il 19 maggio 1506.
Chi fu in realtà? La disputa dura da secoli e ci si accorge che l’uomo, definito linea di demarcazione tra due ere, la medievale e la moderna, ha il volto in piena luce, ma i piedi nella bruma.
Un corsaro francese? Un ebreo di Barcellona, un portoghese, un castigliano, un galiziano, un balearico di Maiorca o di Ibiza, come confusamente dissertarono Salvador de Madariaga o Henri Vignaud?
Era nato a Genova (o nelle vicinanze), tra l’agosto e l’ottobre del 1451, da un tessitore di nome Domenico. Cominciò la sua carriera come fuggiasco dalle opprimenti strettoie, della famiglia e della condizione assai modesta.
Lo testimoniano, non solo le sue affermazioni, manifestamente sincere, sulla propria origine, ma anche un documento, di inoppugnabile autenticità, in cui alcuni suoi parenti, genovesi, dichiarano l’intenzione di inviare in Spagna, a Cristoforo, divenuto in quelle terre famoso ed importante, una richiesta di protezione. E’ una testimonianza che fa intravvedere la traiettoria sociale della sua esistenza, evidenziando come, poco prima di morire, distribuiva titoli onorifici e ricchezze (in gran parte immaginarie) ai fratelli superstiti, ai loro eredi ed ai parenti in generale.
Delle sue native circostanze domestiche sappiamo poco, ma è evidente che egli se ne vergognava. Mentre alludeva, in alcuni scritti giovanili, ad un progenitore ammiraglio, non faceva mai parola del padre tessitore. Lo stesso silenzio sulla madre Susanna, anch’essa figlia di un operaio tessile, e sulla sorella Bianchinetta, andata sposa ad un formaggiaio.
Al contrario, secondo alcuni reperti castigliani, verso i fratelli Bartolomeo e Giacomo, manifestò sempre un forte sentimento amorevole, parlando di “vincoli di sangue e grande affetto”. Bartolomé, in particolare, fu suo compagno e vice, nei lunghi anni spesi a mendicare appoggio presso le Corti occidentali della cristianità latina e fu il suo braccio destro nel complicatissimo tentativo di fondare una colonia nel Nuovo Mondo. Giacomo, noto come Diego, lo accompagnò nella seconda traversata atlantica. “Non ebbi mai amico migliore dei miei fratelli”, ricordava verso la fine dei suoi giorni. La reticenza, si spiega con l’oscurità delle sue origini.
Colombo, del resto, non fu mai tipo da far qualcosa per amore di modestia. L’umiltà, da lui ostentata in seguito, quando andava in giro con il saio, aveva un che di vistoso e di esibizionistico. Mettendo in imbarazzo l’entourage dei Sovrani spagnoli, compariva in pubblico con un abito francescano, a volte in catene, affermando, con una riservatezza singolarmente egoistica, di essere ispirato da Dio.
Le parti del “grande aristocratico” e del “capitano di conquiste”, da lui assunte in età avanzata erano, per un uomo di poca istruzione, scritte con straordinaria bravura ed interpretate, secondo un copione imparato in modo impeccabile. In effetti, potrebbe sembrare facile scusare e, magari, giustificare tali eccentricità, applaudendole come le bizzarrie, che spesso accompagnano un genio.
Senza ombra di dubbio, la sua più tenace e caparbia aspirazione fu quella di fondare una dinastia nobiliare, una volta raggiunta l’indiscussa notorietà. Gli intenti, falsamente primari da lui sostenuti, come il servizio a Dio, ai monarchi spagnoli, all’espansione della scienza e della conoscenza, appaiono, in confronto, subordinati o ausiliari: fili di un mantello di autopromozione, tagliato su misura dall’ex tessitore.
In più di un’occasione, durante le prime attraversate atlantiche, ai suoi scontenti compagni di navigazione non sfuggirono le sue priorità. Si lagnavano, ai limiti di un ammutinamento, che lui voleva soltanto “essere un gran signore”, disposto, per questo, a rischiare la propria vita e la loro. Nell’ultimo viaggio, invece, stanco e demoralizzato, ripudiò ogni desiderio di “rango e ricchezza”, ma ammise, implicitamente, che fino ad allora quelli erano stati i suoi unici ed agognati obbiettivi. Nell’ultimo decennio della sua vita, ad una figura quasi sacerdotale, portatrice, ai pagani, della luce del Vangelo, sovrappose un’immagine, di sé, militaresca, di “capitano”, inviato dalla Spagna per conquistare, al di là del conosciuto, una popolazione numerosa e guerriera. Ma entrambi questi atteggiamenti furono delle aggiunte tardive al suo bagaglio mentale.
La spiritualità fu abbracciata come rifugio dalle avversità; il ruolo soldatesco, ostentato ed esaltato agli inizi del ‘500 dopo essere caduto in disgrazia, per mascherare le incolmabili carenze, dimostrate come amministratore coloniale.
In una lettera del 1495, Colombo aveva fatto allusione ad un suo comando marittimo autonomo, ricevuto in gioventù, nel corso delle guerre fra angioini ed aragonesi, per il dominio del Regno di Napoli. Ma, a parte questo accenno, quasi certamente non veritiero, nulla indica che egli avesse mai imboccato la via delle armi, per farsi strada.
Per un ragazzo genovese di umili origini e di scarsa istruzione, la vita marinara era una scelta del tutto naturale.
Il mondo dell’avventura marittima nel quale entrò, era evocato in una lunga e martellante serie di epiche storie di autori quattrocenteschi, che celebravano, nello stesso tempo, trattati di cavalleria e racconti di campagne militari, esaltando invitti cavalieri, nei tornei, in guerra ed in amore. “Vincere in battaglia è il maggior bene e la gloria maggiore della vita”, echeggiava da quelle pagine.
Ma l’Ammiraglio, da quanto si sa, non lesse mai nulla di quella sdolcinata letteratura “cavalleresco-marinara”, anche se il mondo in cui viveva ne era impregnato.
La genesi del progetto di attraversare l’Atlantico si snodò lungo un lento processo di apprendimento da autodidatta. Colombo attribuiva a Dio, la Grazie ricevuta nell’acquisire quel misto di cognizioni tecniche e di pratica spicciola, che lo contraddistinsero in età matura.
Un certo Andrés Bernáldes, sacerdote e storico spagnolo, suo contemporaneo ed amico, diceva di lui: “E’ un uomo di grande intelletto, ma di poca istruzione”. Aveva tutte le lacune mentali tipiche dell’autodidatta, quei difetti che nascono dall’assorbire cognizioni a caso e senza guida, come una nave in un mare senza stelle. Leggeva avidamente, ma acriticamente. Aveva acquisito un ricco bagaglio nozionistico professionale, ma non fu mai in grado di servirsene nel modo più proficuo.
Sapeva imitare più stili e in varie lingue, ma continuò sempre a fare errori puerili e ridicoli. Nel ragionare, giungeva d’un balzo a conclusioni bizzarre, squinternate, che una preparazione più equilibrata gli avrebbe consentito di evitare. Selezionava in modo ossessivo le sue letture scientifiche, scegliendo quelle che confortavano le sue teorie e scartando quelle contrarie.

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