Stranezze Olimpiche!

Nell’elenco delle tantissime limitazioni che il famigerato, modificato, subdolo coronavirus ci ha imposto ed ancora a lungo ci imporrà, non va dimenticato l’eccezionale rinvio della XXXII Olimpiade, che si sarebbe dovuta tenere, secondo il calendario ufficiale, a Tokyo, in Giappone, dal 24 luglio al 9 agosto dello scorso anno.
Da quando i Giochi Olimpici dell’era moderna si sono rimpossessati della storia, ad Atene nel lontano aprile 1896, grazie all’ostinato impegno del pedagogo francese Pierre De Coubertin, che auspicava un confronto tra nazioni basato su competizioni sportive e non su conflitti armati, il loro cammino non è stato certamente privo di difficoltà, le più gravi delle quali, per l’appunto, sono dipese dalle continue vicende politiche internazionali. Le due guerre mondiali ne hanno del tutto cancellato ben tre edizioni, quella del 1916 assegnata a Berlino, quella del 1940 a Tokyo e quella del 1944 da svolgersi a Londra. Non era mai accaduto, però, che venissero rinviate o sospese per esigenze di salute pubblica.
Per alimentare, anche se debolmente, la fiaccola della memoria, nell’attesa di rivivere a pieno tutte le emozioni che solo un Olimpiade può dare, potrebbe essere interessante conoscere alcune note curiose, per lo più sconosciute, che ne hanno contraddistinto il cammino.
Il pattinaggio sul ghiaccio, sia maschile, che femminile, che a coppie, divenuto disciplina olimpica nel 1908, prima dell’avvento dei giochi invernali istituiti nel 1924, con l’ingresso dello sci e delle altre discipline prettamente stagionali, aveva fatto parte delle competizioni estive, così come l’hockey, che debuttò nel 1920. A quei tempi, mantenere una pista a temperature tali da non provocare lo scioglimento del ghiaccio, non si dimostrò mai cosa facile, in considerazione, soprattutto, delle naturali condizioni climatiche esterne. Difficilmente gli organizzatori riuscirono a garantire un buon risultato tecnico per lo svolgimento delle gare.
Per inciso, le Olimpiadi Invernali, fino al 1992 si disputavano nello stesso anno di quelle estive, mentre è dal 1994, sempre con cadenza quadriennale, che si disputano isolatamente, in un intervallo di due anni.
Dal 1904 al 1912, ogni finalista olimpico riceveva, a riconoscimento per la sua prestazione vittoriosa, una medaglia interamente in oro massiccio. Dall’edizione successiva (così come ai giorni nostri), fu deciso di realizzarla con una lega costituita per il 93% di argento, per il 6% di rame, con soli 6 grammi di oro puro. Nelle prime due manifestazioni, sul podio salirono soltanto i primi classificati per ciascuna prova finale, ricevendo una medaglia fusa in argento. La tradizionale distinzione tra oro, argento e bronzo, fu concepita, appunto, nel 1904.
Se qualcuno ha mai pensato che i più o meno abituali sedici giorni di durata dei giochi, comprensivi delle cerimonie di apertura e di chiusura, siano tanti o troppi, deve sapere che nel 1908 se ne contarono 188, cioè più di sei mesi. Anche se la cerimonia formale di apertura non si svolse prima del 13 luglio, le gare si aprirono il 27 aprile, con il tennis maschile e si conclusero il 31 ottobre con la finale di hockey su prato. Quelli di Parigi del 1900, durarono cinque mesi, così come quelli St. Louis del 1904 e di Anversa del 1920.
Nel 1968, a Città del Messico, spuntò il primo test antidoping. Chi ne fece subito le spese fu il pentatleta svedese Hans Gunnar Liljenwall, che risultò positivo ad una sostanza alcoolica. La sua droga? Due birre che dichiarò di aver bevuto “per calmarsi i nervi”, prima del colpo di pistola ai blocchi di partenza. Lo squalificato Liljenwall ed i suoi compagni di squadra dovettero restituire le medaglie di bronzo, che avevano già appeso al collo. Anche il pentatleta della Germania dell’Ovest Hans Jurgen Todt avrebbe avuto bisogno di bere qualcosa per calmare la propria collera, visto che, nella gara di equitazione, il suo cavallo si rifiutò per tre volte di saltare l’ostacolo. Alla squalifica, reagì legando l’animale all’ostacolo “maledetto” e rientrando a piedi ed infuriato, nel settore scuderie.
La finale di basket, alle Olimpiadi di Berlino del 1936, fu una vera e propria tragedia. Le partite di questo sport venivano giocate su campi da tennis all’aperto, in terra battuta o sabbia. Durante il secondo tempo della gara tra Stati Uniti e Canada, valida per l’assegnazione del titolo, un diluvio improvviso e di inimmaginabili proporzioni si riversò su contendenti e spettatori. In un batter d’occhio il campo assunse le sembianze di un pantano, tale da impedire ogni manifestazione di bravura. Dribblare in quel fango risultò impossibile. Gli americani, una volta riconquistata miracolosamente la palla, se la passarono noiosamente fra loro, al fine di mantenere intatto l’iniziale vantaggio. Punteggio finale: Stati Uniti 19, Canada 8.
Per circa quarant’anni, dal 1912 al 1948, anche l’arte in generale, pittura, scultura, architettura, letteratura e musica, fu inserita nelle discipline partecipanti alle Olimpiadi, denominata “Concorsi d’arte”. Le opere iscritte alle gare dovevano essere pezzi originali, ispirati allo sport. Per una “pura“ coincidenza, lo stesso De Coubertin vinse una medaglia d’oro per la letteratura. L’anno dopo i giochi di Londra, il CIO (Comitato Olimpico Internazionale), ritenendo gli artisti dei professionisti, in contrasto quindi con gli ideali amatoriali dei Giochi Olimpici, decise di escluderli dalle successive edizioni, a partire da Helsinki nel 1952 .
Chi non conosce Oscar Pistorius? Se l’ex velocista sudafricano, denominato “Blade Runner”, campione paralimpico nel 2004 sui 200 metri piani e nel 2008 sui 100, 200 e 400 metri, ritiratosi “forzatamente” dalle gare per i noti problemi giudiziari, non fosse stato eliminato nella semifinale dei 400 metri ed avesse invece vinto, a Londra nel 2012, non sarebbe stato il primo uomo con gambe protesiche a conquistare un oro olimpico. Nei Giochi di St. Louis del 1904, un ragazzo locale, il ginnasta George Eyser che perse da giovanissimo la gamba sinistra dopo essere staro investito da un treno, vinse in quella manifestazione sei medaglie, di cui tre d’oro, gareggiando con una protesi di legno. Ottenne l’oro nella barra parallela, nel cavallo lungo e nell’arrampicata su corda e l’argento nel cavallo laterale e nelle competizioni all-around (gare a prove multiple, definitivamente sostituite nel 1912 con il decathlon).
Un qualcosa di incredibile accadde in quelle di Parigi nel 1900. Mentre studiava arte presso la scuola dei celebri pittori francesi Edgar Degas ed Auguste Rodin, la ventiduenne americana Margaret Abbott lesse casualmente, su di un quotidiano, la locandina per una gara di golf, sport che amava e praticava nel suo paese, e decise di parteciparvi, nel torneo femminile. Dopo aver chiuso a 47 colpi, su di un percorso a nove buche, si portò a casa un piatto di porcellana, come primo premio. Quell’edizione, trasformata in una delle tante attività collaterali dell’Expo parigino di quell’anno, rimase alla storia per la pessima organizzazione delle competizioni. Margaret morì nel 1955, a Greenwich nel Connecticut, senza mai sapere di aver vinto un titolo olimpico. Solo nel ’90, una serie di ricerche storiche, promosse dal CIO per la redazione di un volume sui Giochi dell’era moderna, hanno permesso di ricostruire programmi e risultati risalenti al loro passato. Ottenuto postumo il titolo, la Abbott è divenuta, di fatto, la prima donna americana ad aver partecipato ad una Olimpiade.
Che dire sulle gare di equitazione delle Olimpiadi di Melbourne, nel 1956, che vennero disputate a circa 15.700 chilometri di distanza, a causa delle macchinose leggi australiane sull’importazione dei cavalli, con una quarantena troppo lunga e logorante. Le competizioni si svolsero a Stoccolma, cinque mesi prima del resto delle gare.
Siamo ancora a Londra nel 1908, durante la cerimonia di apertura dei VI Giochi Olimpici. Il protocollo imponeva che, all’atto di passare davanti ai reali, Edoardo VII e la regina Alessandra, le bandiere nazionali venissero inclinate di quarantacinque gradi, in segno di omaggio. Quando fu il turno degli Stati Uniti, Ralph Rose, alfiere della squadra, sollecitato dai compagni sensibili al richiamo dell’indipendentismo dublinese dalla corona, mantenne alto il vessillo, affermando a voce alta: “This flag dips to no earthly king“ (questa bandiera non si inchina di fronte a nessun re della terra). Sembra che a scatenare una tale reazione fosse stata una dimenticanza organizzativa, peraltro non trascurabile. Sui pennoni posti, coreograficamente su tutto il perimetro esterno dello stadio, non comparve la bandiera stelle e strisce (così come quella svedese). La cosa indignò parecchio l’intera compagine statunitense ed intaccò irrimediabilmente i rapporti già non proprio idilliaci tra inglesi ed americani, che si tradussero poi in un’accesa rivalità in gara.
Ma, al di là del singolo episodio, da quel momento in poi gli Stati Uniti, nel corso di manifestazioni sportive, non abbassarono più il loro vessillo (come ratificato dal Congresso, nel 1932). Pierre De Coubertin, il giorno seguente, non sapendo forse come giustificare la gaffe degli organizzatori, di cui faceva parte, commentò: “Re Edoardo era piuttosto adirato con gli atleti americani per il loro comportamento e per le loro grida barbariche che risuonavano in città”.
Un modo come un altro per tentare di salvare la faccia, peggiorando catastroficamente le cose!

Condividi questo articolo qui:
Stampa questo post Stampa questo post