Contrasto di… bassa quota!

La storica impresa della conquista del “K2” (abbreviazione di “Karakorum 2”, 8.609 m.s.l.m., la seconda vetta più alta della Terra dopo l’Everest, al confine tra Pakistan e Cina), raggiunta il 31 luglio 1954 da un team tutto italiano, appartiene alla cronaca del passato ed è ricordata ormai solo da coloro che amano e vivono intensamente l’alpinismo e la montagna, perché, in effetti, sessantasei anni non sono pochi, nemmeno per la storia.
Ma la grandezza di quell’evento, che tanto lustro ed orgoglio diede al nostro Paese, è stata, in parte, offuscata da ombre e dispute che coinvolsero, per decenni, i suoi protagonisti.
E questo perché, il merito del successo fu interamente attribuito all’alpinista, campione di sci Achille Compagnoni (1914-2009) ed a Lino Lacedelli (1925-2009), una Guida alpina ampezzana. Walter Bonatti (1930-2011), soprannominato “il re delle Alpi”, alpinista, giornalista e scrittore, anche lui uno del gruppo, fu invece escluso e lottò tutta la vita, affinché la sua impresa fosse riconosciuta.
Quello che per anni fu un mistero italiano, iniziò nel 1954 quando l’alpinista e geologo friulano Ardito Desio, spentosi serenamente all’età di 104 anni nel 2001, volle guidare la scalata al K2. Fu scelta l’unica e difficilissima via dello “Sperone degli Abruzzi”, che sale sul versante sud-est.
La cordata era composta da 13 scalatori italiani, provenienti da diverse regioni, da 5 ricercatori e da numerosi portatori pakistani, necessari per il trasporto del materiale fino al campo base.
La sera del 29 luglio venne concordato che Compagnoni e Lacedelli, partissero il giorno dopo per allestire il campo successivo, il nono, che sarebbe dovuto essere ad una quota più bassa del previsto, a 7900 metri, per dare a Walter Bonatti e Pino Gallotti, la possibilità di scendere fino al settimo, recuperare delle bombole d’ossigeno e portarle al nuovo campo.
Tutto funzionò secondo i piani, fino a quando Walter Bonatti, accompagnato nella risalita dalla guida “hunza”, Amir Mahdi, non riuscì a raggiungere, all’ora stabilita, il campo nono, dal momento che lo stesso fu allestito ad una quota molto più alta di quanto concordato, allo scopo (come diranno Compagnoni e Lacedelli) di guadagnare terreno per la salita del giorno successivo. E così, all’arrivo del buio, Bonatti e Mahdi, si trovano bloccati a 8100 metri di altezza, sotto uno sperone di roccia, conosciuta come “il collo di bottiglia”, senza poter né scendere né proseguire.
“Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”, scriverà l’alpinista bergamasco anni dopo.
Gridando con tutta la voce che avevano in gola, i due riuscirono a farsi sentire da Lacedelli, che li invitò a scendere verso il campo più a valle. Bonatti si rifiutò di farlo, poiché la guida Mahdi, che versava in uno stato confusionale, non era in condizione di muoversi. Non volle lasciarlo solo, né esporlo ad altri rischi. Lino Lacedelli rientrò nella propria tenda, convinto che gli avessero dato ascolto.
I due, invece, passarono la notte all’addiaccio, senza tenda e sacchi a pelo, sommersi da una bufera di neve. Sopravvissero solo grazie alla loro tempra fisica, anche se il pakistano ebbe un congelamento ai piedi (gli vennero poi amputate alcune dita).
Con le prime luci dell’alba, alle 04,00, Mahdi cominciò, in solitaria, la discesa, raggiungendo il campo settimo verso le 05,30. Bonatti, che lasciò sul posto le bombole, fece lo stesso un’ora più tardi. Compagnoni e Lacedelli, recuperato l’ossigeno trasportato dal compagno, si incamminarono verso la vetta, giungendovi per primi, appunto, il 31 luglio 1954.
Subito dopo il ritorno degli alpinisti in patria, fu presentato al Club Alpino Italiano un resoconto dei fatti, scritto da Desio e adottato dal CAI come relazione ufficiale della spedizione, pubblicato in seguito, in forma di libro dal titolo “La conquista del K2”. In quella relazione, la descrizione degli eventi nei campi avanzati fu affidata ad Achille Compagnoni (Desio non salì mai al di sopra del campo base). Bonatti notò, in quelle pagine, numerose discrepanze con la realtà e ne rimase molto amareggiato.
“La montagna mi ha insegnato a non barare, a essere onesto con me stesso e con quello che facevo. Se praticata in un certo modo è una scuola indubbiamente dura, a volte anche crudele, però sincera come non accade sempre nel quotidiano”, dirà ancora Bonatti.
In Pakistan, si accese con particolare veemenza una campagna di protesta, condotta dalla stampa locale, per il trattamento riservato alla guida hunza Amir Mahdi, che riportò gravi amputazioni. Achille Compagnoni fu accusato di aver ordinato a Mahdi di fermarsi a 500 metri dalla vetta, dopo essersi fatto aiutare nella salita e di averlo abbandonato ad un bivacco di fortuna notturno. Il 1° settembre 1954 arrivò, sotto forma di lettera, firmata da tutti i protagonisti, un chiarimento sulla vicenda, con la positiva mediazione dell’Ambasciatore italiano Benedetto D’Acunzo, che condusse un’inchiesta in merito.
Il malumore, rimasto latente nel tempo, si riaccese nel 1964. Tre anni prima era uscita un’autobiografia di Walter Bonatti, intitolata “Le mie montagne”, nella quale, per la prima volta, l’alpinista aveva dedicato un capitolo intero al racconto dell’avventura del K2, esponendo dettagliatamente la sequenza degli avvenimenti, dal pomeriggio del 30 luglio fino alla notte trascorsa sul pendio ed evidenziando il comportamento scorretto di Compagnoni e Lacedelli.
Il 26 luglio ed il 1 agosto 1964, sul quotidiano torinese “Nuova Gazzetta del Popolo”, il giornalista Nino Giglio pubblicò due articoli, che formulavano pesanti accuse su Bonatti, come l’aver offerto a Mahdi del denaro per farsi accompagnare in vetta, così da scavalcare Compagnoni e Lacedelli ed aver utilizzato per circa un’ora l’ossigeno nelle bombole durante il bivacco, svuotando parzialmente queste ultime e mettendo a rischio la vita di Compagnoni e Lacedelli, nella fase di ritorno. Questa accusa decadde però immediatamente, poiché l’ossigeno, per essere inalato, necessitava dei respiratori, che Compagnoni e Lacedelli avevano al seguito e Bonatti no.
Walter Bonatti fece causa per diffamazione contro il giornalista Giglio, che perse e dovette pubblicare un articolo di smentita. Ma, in realtà, le posizioni assunte da ciascuno dei contendenti sul “l’ossigeno succhiato”, rimasero comunque inalterate. Bonatti scrisse più volte che questa fu la “menzogna di base” della storia del K2.
Altre fonti, più o meno attendibili, al contrario, accusarono Compagnoni e Lacedelli di aver spostato intenzionalmente più in alto il campo e di aver fatto finta di non udire i richiami dei due rimasti isolati, temendo che Bonatti potesse affiancarli o scalzarli nella salita, dopo averli raggiunti alla tenda.
Nel 2004, in previsione del cinquantesimo anniversario della spedizione, un gruppo di giornalisti e di alpinisti lanciò al CAI un appello, affinché si ottenesse un definitivo chiarimento su tutti i punti rimasti in sospeso. Il CAI rispose, incaricando una commissione, formata da “tre saggi” (Fosco Maraini, alpinista con esperienza in spedizioni himalayane, Alberto Monticone, storico e Luigi Zanzi, docente di storia e cultura montana) di condurre un’analisi storica e storiografica dei fatti in questione.
I saggi, dopo un lungo ed attento esame, ribadirono che la disputa era, anche se sotto angolazioni differenti, una mera conseguenza congetturale e come tale andava considerata.
Lino Lacedelli, denominato “lo scoiattolo di Cortina”, qualche anno prima di morire, in un’intervista al “Corriere della Sera”, dichiarò: “Per me è come se fosse arrivato in cima anche lui. Ho sempre affermato che Bonatti è stato la persona determinante per la conquista del K2. In vetta solo perchè Walter ci portò l’ossigeno!”.
Bonatti, ormai rasserenato, si disse, una volta per tutte, soddisfatto.

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