S.A.R. comincia male!

Umberto II di Savoia debuttò da Luogotenente del Regno, con il piede sbagliato. Aveva ormai quarant’anni, ma nessuna esperienza in affari di stato, se non quella che si era creato da solo, osservando ed ascoltando. Era appassionato di storia e di araldica; da tempo collezionava antichi documenti sabaudi. Ma non si hanno notizie certe che avesse coltivato vere amicizie, se non quelle preventivamente approvate da suo padre. Per non causare imbarazzo al Sovrano, si era sempre mostrato deferentissimo e ubbidiente a Mussolini: salvo qualche mormorio, alla fine, con Galeazzo Ciano; come tutti, del resto. Vittorio Emanuele lo aveva cresciuto da militare e basta. “Per regnare”, diceva, “verrà il suo momento e allora imparerà da solo”. Concetto molto opinabile, dal momento che non aveva nessuno accanto a lui, in grado di guidarlo, di sopperire alle sue lacune. Non un Aiutante di Campo intelligente, non un politico affezionato, perché suo padre non ci aveva mai pensato.
Lasciato solo a volare in spazi ignoti, Umberto commise, subito, una “gaffe” clamorosa, concedendo un’intervista sconsiderata al corrispondente del “Times”, Christopher Lumby. Il testo della conversazione venne immediatamente divulgato, attraverso “Radio Londra”, il 26 aprile 1944. Più di ogni altro, diede in escandescenze Benedetto Croce, che evidenziò subito l’irresponsabilità imperdonabile delle dichiarazioni del Luogotenente. Infatti, alla domanda sul come mai l’Italia avesse dichiarato guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia, Umberto rispose: “Così volle Mussolini, ma sia chiaro che tutto il popolo consentì, dal momento che non si levarono voci contrarie al progetto. Lumby controbatté, con piglio ironico, che non era certo possibile ribellarsi al potere del Duce, là dove non esisteva più, in Italia, una stampa libera di urlare le proprie idee ed una Camera che non si chiamava più dei Deputati, bensì dei Fasci e delle Corporazioni. Un Parlamento composto da gente nominata dallo stesso Mussolini che, a suo arbitrio e capriccio, rimaneggiava e sostituiva. Concluse, il giornalista inglese, che una tale realtà lui, il Principe ereditario, non poteva e non doveva ignorarla: l’ignoranza sarebbe stata, in quel caso, assai peggiore, cioè assai più negativa, della sofisticazione e della menzogna, nella ricerca di una scusante alla Monarchia.
In realtà, Umberto cercò solo di difendere suo padre dall’accusa di aver subito la volontà di Mussolini e di avere dichiarato guerra perché così ordinava il Duce, addirittura contro gli interessi della Patria. Ma lo fece in modo molto maldestro: cioè scaricando la responsabilità implicita, di quella tragica decisione, sul popolo italiano, come una specie di chiamata di correo. E’ anche vero che nessuno intervenne per dirgli che cosa si poteva dire ad un giornalista e ciò che si doveva, al contrario, tacere o sfumare, proprio su di un tema tanto delicato e con un proposito così difficile, quale quello di difendere l’indifendibile condotta del Re. Il Principe di Piemonte apparve, quindi, un uomo di debolissima preparazione politica, di insufficiente fiuto, di improvvide valutazioni e, perfino, di sconcertante ingenuità. Certo è che ne scaturì un pasticciaccio tale, da mandare in bestia gli esponenti del Governo e dei Partiti, a Salerno. Un terremoto, insomma.
Proprio il giorno prima che si conoscesse la famigerata intervista, dopo avergliene fatto richiesta attraverso il Marchese Serra di Cassano, Umberto si recò in visita da Croce, primo passo ufficioso del suo nuovo mandato luogotenenziale. Il filosofo lo ricevette alle undici del mattino e restò con lui un’ora. Quasi paternamente, Croce lo catechizzò sulla necessità che, venuto il suo turno, sapesse tracciare un segno divisorio, netto, tra il suo stesso precedente contegno e quello da assumere in qualità di rappresentante della Monarchia. Gli raccomandò, con particolare calore, di scegliere bene gli uomini che lo avrebbero affiancato e di tener conto che, quelli di cui si circondava al momento, erano tutti fortemente sospetti e rendevano sospetto anche lui.
Come ha potuto, allora, Umberto uscirsene con una dichiarazione di un disarmante, e così preoccupante candore, inciampare così vistosamente al suo primo contatto con la stampa? Croce, leggendo il testo dell’intervista, asserì che l’erede al trono era, quanto meno, uno sprovveduto. Non gliela lascerà passare liscia. Chiese a Cecil Sprigge, venuto a casa sua, di poter rispondere sul “Times”, con un suo testo piuttosto polemico, al Principe. Sprigge, corrispondente di guerra, in Italia, dell’agenzia “Reuter”, accettò subito di occuparsene. L’articolo gli sarebbe stato consegnato, dopo due giorni, il 4 maggio, a Salerno. Cosa che puntualmente accade, non appena il filosofo giunse nella nuova capitale, per partecipare al Consiglio dei Ministri. Durante la riunione, la topica di Umberto occupò un largo spazio e fu condannata da tutti. Pietro Badoglio, novello Capo del Governo, informò di averne parlato con il Re e di aver ottenuto, da lui, la promessa che sarebbe stato impedito a suo figlio di rilasciare pubbliche dichiarazioni. Croce rispose che se ciò assicurava sul futuro, non cancellava certo il passato. L’intervista aveva provocato un grave danno al popolo italiano ed alla sua causa. Aggiunse, inoltre, che lui avrebbe risposto al Luogotenente con un articolo consegnato a Sprigge. Si ritornò sull’argomento il 7 maggio ed i Ministri chiesero al Maresciallo Badoglio di far cambiare al Principe “tutta la sua corte militare” e di assegnargli “un Ministro o segretario civile in accordo con il Ministero Democratico”. Secondo Croce, “questa intervista deve essere stata il prodotto dell’ambiente in cui il Principe vive e che non spende certo di intelligenza”.
Anche il Re, vecchio e scaltro navigatore di burrasche politiche, era preoccupato di quell’inciampicone di Umberto, ai suoi primi passi. Chiamò il Generale Puntoni e gli disse: “Bisogna che mio figlio si decida a scegliersi un primo Aiutante di Campo che sia all’altezza della situazione ed un Capo di Gabinetto con la testa sul collo, in grado di aiutarlo e consigliarlo come si conviene….”. Ma non fu proprio lui ad opporvisi sempre? Perché, in quella circostanza, riversava sul figlio la colpa di essere inesperto e contornato da incapaci, tutti a lui noti e sui quali non aveva mai avuto nulla da ridire?
L’11 maggio il Consiglio dei Ministri chiuse il “grave caso”. Venne stabilito di pubblicare una dichiarazione in cui “si riprova, per la materia e la forma, l’intervista del Principe di Piemonte” e si propone di “promuovere un totale cangiamento della sua corte”. Per la verità, della “corte” di Umberto è difficile parlare. Aveva un Aiutante di Campo, il Generale Gamerra, e qualche Ufficiale Addetto, Campello, Litta Modigliani e Serra di Cassano. Si udirono, addirittura, voci che il Primo Aiutante di Campo sarebbe stato, a breve tempo, il Generale Berardo di Pralormo, fatto rientrare dalla prigionia in India. Tutti militari, quindi, tutti ignari di come si trattava con i politici, tutti inesperti di affari di stato. Si poteva chiamare “Corte”, quella? Che il Principe, poi, non si fosse nemmeno reso conto dello sbaglio commesso e che non avesse valutato bene le cose da dire a Lumby, prima di dirle, lo confidò Pietro d’Acquarone, Ministro della Real Casa, a Croce il 3 giugno 1944, alla vigilia della liberazione di Roma: “ Mi hanno raccontato per di più, circa la scandalosa intervista del “Times”, che il Principe non comprese punto la gravità delle dichiarazioni da lui fatte e che ci sono voluti parecchi giorni per fargliela comprendere. L’Acquarone concluse “che il Principe sarà docile, se ben attorniato, e se una persona intelligente e di buona volontà gli sarà posta a lato”.
A posteriori, come sempre, fu facile gettare tutte le colpe sul Principe di Piemonte. Serviva anche rivalutare il vecchio Re. Ma si è mai pensato, e detto, in quale condizione psicologica e addirittura fisica avesse vissuto fino ad allora Umberto, una condizione tale da alterarne ogni capacità di agire autonomamente? Certamente no! La storia, fino all’ultimo, non fu mai benevola con lui.

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