I principi esecutivi e le definizioni stilistiche della pittura pompeiana

Nel VII libro della sua opera omnia dedicata ad Augusto, il De architectura, Marco Vitruvio Pollione ha parlato anche dei metodi d’esecuzione della pittura romana sulle superfici in muratura: in esso l’autore scrive delle expolitiones, cioè dell’intonacatura resa liscia e in seguito decorata a fresco ad emulazione delle caratteristiche della roccia marmorea. Successivamente anche Plinio il Vecchio, nella sua opera enciclopedica Naturalis historia, tratta dell’arte pittorica, rammaricandosi che l’uso dei marmi stava soppiantando l’arte maggiore del dipinto, espressione creativa per eccellenza. La pittura murale seguiva un triplice canone esecutivo, l’affresco, l’encausto e la tempera. Già durante l’età del bronzo si sono avute le prime testimonianze della tecnica dell’affresco: circa 1500 anni prima di Cristo questa pratica artistica si sviluppò con la civiltà egea in epoca minoico-micenea. Il rivestimento murale delle pareti assorbiva il colore, che, dopo il processo della carbonatazione, durava perennemente. L’encausto è un procedimento artistico che, mediante il calore, forma una sostanza omogenea combinando insieme quantità di cera punica, acqua di mare e pigmenti colorati: molti studiosi ritengono che l’ideatore di questa procedura sia l’autore del celebre dipinto Dionisio e Arianna, Aristide di Tebe, nato nel IV secolo a.C. Infine la pittura a tempra: per questa tecnica veniva utilizzata una miscela formata dal tuorlo d’uovo, quantità di cera e particolari sostanze solventi. Il tedesco August Mau, scomparso a Roma agli inizi del ‘900, è stato un esperto di storiografia e un archeologo di chiara fama: ha studiato le espressioni artistiche pittoriche e decorative dell’antica città di Pompei, e, basandosi sulle reminiscenze vitruviane, ci ha lasciato in eredità un’attenta classificazione dei dipinti dal 200 a.C. fino all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Nel 1882 l’Architetto di Kiel, in Geschichte der dekorativen Wandmalerei in Pompeji, suddivide il decoro murale pompeiano in quattro definizioni stilistiche: strutturale, architettonico, ornamentale e il cosiddetto illusionismo prospettico. Da un punto di vista cronologico, lo stile strutturale si pone a cavallo tra il II e il I secolo a.C. e risente di antiche influenze elleniche: alcuni elementi architettonici venivano prodotti con stucchi aggettanti colorati, a modello dei marmorati, le lastre multicolore di vitruviana memoria, designate come crustae marmoreae. Dal punto di vista cromatico le tinte principali erano il rosso e il nero, ma non erano rari anche quei colori che riproducevano le nuance delle pietre dell’edilizia. Si registra una fase storica di oltre un secolo per il secondo stile pompeiano, l’architettonico: i preziosi stucchi decorativi e gli eleganti gessi ornamentali vengono soppiantati da giochi di colori e armonie chiaroscurali che creano percezioni apparenti di spessori e sensazioni illusorie di volumi, inoltre ebbero larga diffusione il genere della natura morta e dei dipinti paesistici. Il terzo stile, l’ornamentale, portò ad un capovolgimento del concetto di profondità delle immagini e ad una predilezione per uno sfondo “aggettante”: gli effetti prospettici, il “quadraturismo” precedente usato per suscitare effetti ingannevoli e trompe-l’oeil, cedono il passo a colori uniformi di tonalità intense, a campiture imitanti tessuti e rivestimenti con quadrature centrali dipinte. Il 5 febbraio del 62 d.C. la città di Stabia fu epicentro di un terremoto che provocò danni ingenti a tutta l’area alle falde del vulcano partenopeo. Il rifacimento urbanistico e le riedificazioni edilizie videro un recupero di ornamenti del passato con riproposte della progettistica in prospettiva e dell’illusionismo delle profondità, come il genere dell’“inganno visivo” trompe-l’oeil o degli artifici architettonici, commisti ad ornati peculiari del terzo stile pompeiano.

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