Le Russe borghesi (1a parte)

In momenti come questi, di particolare incertezza, timore e forzato isolamento, forse distrarsi con argomenti relativi a realtà lontane e sconosciute, può servire per distogliere la mente.
Non si può certo dire che nella Russia del XVII Secolo esistesse un tipo femminile specificatamente autoctono, giacché il sangue di quel popolo era un misto di componenti slave, tartare, baltiche, ecc.. Idealmente, forse, la donna russa era affabile ed avvenente, con capelli castano chiari ed un corpo che, dopo l’adolescenza, tendeva ad appesantirsi. Ciò era dovuto non solo al fatto che agli uomini di quelle terre piacevano signore forti, con petti abbondanti, ma anche perché le loro forme, impinguite dall’inerzia, erano libere di espandersi a volontà. Gli occidentali, abituati ai busti attillati di Versailles, St. James e di Hofburg, le trovavano troppo corpulente.
Si preoccupavano della loro bellezza. Vestivano con lunghe gonne di velluto e broccato dai colori vivaci; raccoglievano i capelli in un’unica treccia, tenuta legata da un nastro o da fiori; indossavano splendidi orecchini, braccialetti ed anelli. Purtroppo, più elevato era il rango sociale e più raffinato il guardaroba, meno si vedevano in pubblico. L’opinione, di origine bizantina, che i russi avevano della donna era assai lontana dalle concezioni occidentali dell’amor cortese e della idealizzazione cavalleresca. Era vista come un essere stupido, indifeso, intellettualmente vuoto, moralmente irresponsabile ed entusiasticamente irrazionale. L’idea puritana che in tutte le fanciulle albergasse un elemento peccaminoso, le condizionava fin dalla più tenera età. Nelle buone famiglie, infatti, i bambini dei due sessi non giocavano mai insieme, per paura che i maschi fossero contaminati dalle femmine; man mano che crescevano, anche le ragazze potevano venire contaminate e, quindi, erano proibiti persino i più innocenti contatti. Così, per preservare intatta lo loro purezza, mentre apprendevano le preghiere, l’ubbidienza ed un po’ di ricamo, le giovani venivano tenute sotto chiave. Una canzone popolare le descrive “sedute dietro trenta porte chiuse, perché il vento non possa arruffare i loro capelli, né il sole bruciare le loro guance, né la mano del bel fanciullo toccarle”. In tal modo, ignoranti e reiette, aspettavano il giorno in cui sarebbero state affidate ad un marito.
In genere una ragazza veniva fatta sposare nel fiore dell’adolescenza ed il marito veniva imposto dalla famiglia, dopo lunghe contrattazioni riguardanti, non solo la dote, ma anche garanzie della sua verginità. Presentando la figlia allo sposo, il padre gli faceva omaggio di uno scudiscio che il giovane si appendeva alla cintura, quale simbolo del passaggio della fanciulla dall’autorità paterna a quella coniugale. La sposa, dopo lo scambio degli anelli, si gettava ai piedi dello sposo fino a toccargli le scarpe con la fronte, in atto di sottomissione; lui l’avvolgeva, poi, con il lembo del suo mantello per sancirne la protezione ed il sostegno. Finita la cerimonia, mentre gli invitati davano inizio al banchetto nuziale, i novelli sposi si ritiravano immediatamente in camera da letto; venivano concesse loro due ore, poi, spalancata la porta, l’uomo doveva proclamare la verginità della moglie o l’opposto: nella prima ipotesi i due sposini si univano al banchetto, nella seconda tutti, ma più di ogni altro la sposa, esprimevano il loro dolore.
Una volta sposata, la moglie era considerata, nella casa del marito, nient’altro che un bene domestico animato e non possedeva alcun diritto derivatole dal matrimonio. I suoi compiti erano di badare alla casa, accudire al coniuge ed allevare i figli. Se era sufficientemente dotata, poteva impartire ordini alla servitù; in caso contrario, i servi, in assenza del padrone, svolgevano le loro mansioni senza chiederle niente. Quando arrivava un ospite importante, le era permesso di presentarsi, prima del pranzo e vestita nella maniera più elegante, con una tazza, su di un vassoio d’argento, per dargli il benvenuto; ferma davanti all’ospite, offriva la tazza, porgeva la guancia per essere baciata cristianamente e se ne andava senza aver detto una sola parola. Quando nasceva un figlio, coloro che temevano il marito o ne sollecitavano la protezione, venivano a congratularsi con lui, recando un pezzo d’oro per il neonato; se l’offerta era generosa, l’uomo aveva buone ragioni di essere contento di sua moglie.
Qualora il coniuge non fosse stato felice della propria situazione familiare, disponeva di diversi modi per risolverla. Poteva essere necessaria una leggera punizione della consorte e si ricorreva allora alla frusta. Il “Domostroj”, una sorta di codice di comportamento familiare, datato 1556 ed attribuito ad un monaco di nome Silvestro, dava specifici suggerimenti ai capifamiglia su numerosi fatti di vita domestica, che andavano da come conservare i funghi alle punizioni delle proprie “schiave”. Su quest’ultimo argomento raccomandava che “le mogli disubbidienti dovevano essere frustate severamente, ma non con troppa foga”. Nelle classi meno elevate, capitava spesso che i mariti frustrassero le mogli senza alcun motivo valido e non era raro che le poverette morissero sotto le sferzate; e così, il vedovo poteva tranquillamente riposarsi. Succedeva, a volte, che la donna reagisse a queste spietate torture ed uccidesse il marito; ma ciò era assai insolito, perché una legge, promulgata nei primi anni del regno di Alessio, le condannava ad una morte lenta ed atroce (venivano ricoperte di terra fino al collo e lasciate morire di fame e di sete).
Nei casi seri, quando il recupero della moglie non valeva la pena delle frustate o quando il marito si innamorava di un’altra donna, l’unica soluzione era il divorzio. Per divorziare, un ortodosso non doveva fare altro che rinchiuderla, volente o nolente, in convento. Qui le venivano tagliati i capelli ed una volta indossata una lunga tonaca nera, dalle ampie maniche e cappuccio, veniva considerata “morta” agli occhi del mondo. Per il resto dei suoi anni viveva con le altre religiose, che erano spesso fanciulle obbligate a rinunciare alla vita laica da fratelli o parenti avidi di eredità. Altre volte si trattava semplicemente di giovani spose fuggite di casa, che avevano preferito la clausura alla vita coniugale.

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