Il Cristo velato

Nel XVII secolo il Patriarca Alessandro di Sangro, Arcivescovo di Benevento, volle ingrandire la cappella fatta realizzare a Napoli da suo padre, il Principe Giovan Francesco, quale “ex voto suscepto”: la “Pietatella” divenne così un vero e proprio santuario che assunse il nome di Chiesa di Santa Maria della Pietà, avente anche funzioni di sepolcro monumentale e tomba gentilizia del Casato. Il Principe Raimondo di Sangro, il secolo successivo, assunse alle proprie dipendenze celebri Maestri d’arte per accrescere con opere scultoree il pregio e la rinomanza del luogo di culto: così la splendida teca conosciuta come “Cappella Sansevero”, è diventata un capolavoro immenso di cultura barocca, una leggenda di finissimo gusto estetico e un astro luminoso nella costellazione artistica del globo. Il nobile foggiano si rivolse, tra gli altri, all’artista Antonio Corradini di Venezia, che realizzò la scultura del Decoro, la statua della Pudicizia, il busto del Duca Paolo de Sangro, Ufficiale Superiore dell’Esercito delle Due Sicilie, e il monumento del Principe Giovan Francesco. Della schiera degli abili artieri fece parte anche lo scultore partenopeo Giuseppe Sammartino: il suo profilo biografico risulta essere piuttosto frammentario, ma la notorietà del suo Cristo velato lo innalza ai vertici degli artisti più conosciuti al mondo nel campo delle Belle Arti. Lo scultore, per creare l’opera, ha utilizzato un marmo proveniente dai giacimenti delle Alpi Apuane, e l’ha realizzata nel 1753, come si evince dall’incisione sul lato posteriore del basamento. Inizialmente il progetto della statua del Figlio di Dio era stato assegnato al Corradini, ma l’evento inatteso della sua dipartita fece passare il mandato al Sammartino: il corpo senza vita di Gesù è disteso su un letto corredato da una coppia di guanciali con fiocchi ornamentali e le spoglie mortali del Salvatore sono coperte da un lenzuolo leggero e trasparente. Il telo marmoreo è così realistico e verosimigliante che ha generato nel tempo storie e leggende su presunte alchimie, mistificazioni e artifici chimici su indicazione del nobile foggiano. L’opera è stata eseguita con grande perizia d’arte: attraverso la diafanità della stoffa è possibile scorgere il travaglio, le tribolazioni patite e le tracce del supplizio inflitte, e come asserì la scrittrice ellenica Matilde Serao, quel tessuto “vela senza nascondere, […] non cela la piaga ma la mostra, […] non copre lo spasmo ma l’addolcisce”; inoltre la trama traslucida del sudario, descritto dall’Accademico di Francia Héctor Bianciotti come un “velo d’acqua madreperlacea”, evidenzia i tratti umani e la struttura anatomica del Cristo morto: l’artista scolpisce con maestria muscolatura, cute e vasi sanguigni, che si fondono insieme in un connubio plastico ed armonico. Con riferimento alle narrazioni delle Sacre Scritture degli Evangelisti Matteo, Marco e Giovanni, il Sammartino colloca nel gruppo scultoreo la corona di spine, ed inoltre i lunghi chiodi della crocefissione e la pesante tenaglia utilizzata per liberare il Redentore. L’aura che avvolge l’opera è toccante e coinvolgente, e il commovente transito dalla vita terrena al Regno dei Cieli viene percepito come malinconico e tragicamente elegiaco. Lo scultore trevigiano Antonio Canova, uno degli artisti più famosi, autorevoli ed eminenti del Neoclassicismo italiano, nel 1780, durante un soggiorno a Napoli ospite della Nobildonna Contarina Barbarigo del Patriziato veneziano, fu travolto dalla straordinaria magnificenza dell’opera e affascinato dall’eccezionale levatura dell’autore.

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