I Romani e il cibo

“Ecco quattro valletti accorrere, danzando a suon di musica e togliere il coperchio. Ciò fatto, vediamo lì dentro capponi, pancette e, in mezzo, a far da Pegaso, una lepre fornita d’ali. Li seguiva un’alzata, dov’era deposto un cinghiale di prima grandezza e con tanto di berretto, dalle cui zanne pendevano due canestrini intrecciati di palme, uno pieno di datteri freschi, l’altro di datteri secchi. Intorno, poi, dei cinghialetti di pasta dura, come appesi alle mammelle, stavano ad indicare che si trattava di una femmina”. E’ un passo dalla famosa “Cena di Trimalcione”, dal “Satyricon”di Petronio e descrive il pantagruelico banchetto del liberto romano.
Fra gli eccessi alimentari dei ricchi e la frugalità del popolo, che consumava soprattutto pane, olive, formaggio, verdure, frutta secca, vi era un abisso. L’alimentazione media del cittadino comune era prevalentemente vegetariana, prediligendo il consumo di verdure, cereali, frutta ai quali si affiancavano latticini, uova e, più sporadicamente, pesce e carne. Era, quella di allora, una nutrizione più sana rispetto all’attuale, perché le materie prime non erano così trasformate. Ad esempio, il frumento, che consumiamo oggi, è profondamente diverso dal grano antico, essendo stato modificato geneticamente, nei laboratori dell’ENEA, all’inizio degli Anni ’70, attraverso l’uso di radiazioni ionizzanti, che hanno dato vita a un mutato nuovo grano duro, detto “creso”. E’ di taglia più piccola (misura, in altezza, 70/80 cm, contro i 150/180 dei grani precedentemente coltivati), è resistente alle malattie e all’allettamento (il piegamento della pianta fino a terra) e gode, pertanto, di un’elevata produttività. Dal suo ceppo, sono successivamente derivate numerosissime varietà, coltivate in tutto il mondo. Nell’ambiente scientifico si ritiene non sia un caso che, parallelamente alla diffusione del consumo di varianti di grano con profilo proteico modificato, si è assistito ad un preoccupante aumento di reazioni avverse al glutine: dalla celiachia, all’allergia, alla cosiddetta “sensibilità al glutine”. Il “creso”, ancorchè modificato geneticamente, non è considerato un OGM e con esso, in tutta Italia, vengono prodotti pasta, pane pizza e dolci.
I cittadini comuni di Roma non avevano questo problema e si alimentavano, oltre che di grano, anche di altri cereali come farro e orzo. Un’altra loro buona abitudine era la completezza dei sapori: nel loro menù, vi era sempre la presenza di qualcosa di dolce, come la frutta secca, ad esempio. Questo sapore ricorreva anche nella preparazione delle carni. In tal modo il soddisfacimento del palato, a fine pasto, era più completo. C’è da aggiungere che gli antichi mangiavano meno rispetto a noi, circa tre pasti al giorno, uno importante e due frugali, rispetto ai cinque o sei che oggi vengono spesso consumati e che comportano un aumentato apporto calorico e la crescita di peso. Un’altra ottima abitudine era quella di cenare presto, seguendo un’alimentazione circadiana (ritmo di tempo caratterizzato da un periodo di ventiquattro ore) che rispetta i ritmi biologici. Mangiare in un arco ristretto di tempo è, anch’esso, una forma di digiuno, che si è rivelata benefica per la salute. Non a caso, i medici dell’epoca prescrivevano ai ricchi questa pratica di astinenza, a correzione dei loro abusi alimentari. I benefici del digiunare sono documentati: lo si può fare in vari modi, per uno o per più giorni, assumendo brodi vegetali o acqua d’orzo.
Un vero alimento toccasana era il cavolo (brassica oleracea), fortemente consumato e, già allora, consigliato. I Romani avevano capito che si trattava di una verdura speciale, come tutte le crucifere. Esse sono particolarmente ricche di micronutrienti e aiutano a contrastare l’azione dannosa dei radicali liberi; possiedono un alto contenuto di sali minerali, fibre e vitamina C; hanno la capacità di attivare degli enzimi, a livello epatico, fondamentali per la detossificazione. Per questo, erano soliti iniziare i banchetti con insalate di cavolo crudo: avevano notato che consentiva di sopportare meglio gli effetti dell’alcool. Vi era poi l’uso delle spezie, molto più diffuso rispetto alle nostre abitudini, con rosmarino, alloro, prezzemolo, origano, aglio, basilico, salvia, chiodi di garofano, cumino, paprika, peperoncino, zafferano, cannella e noce moscata: contengono tutti proprietà antiossidanti, sali minerali, vitamine e sono efficaci per la cura e la prevenzione di tante malattie diverse. Inoltre, depurano, disintossicano, sgonfiano e riducono il rischio di infezioni.
La convivialità dei loro banchetti era un aspetto che oggi andrebbe rivalutato. Viviamo in un mondo frenetico e dedichiamo troppo poco spazio ai pasti, mentre il piacere di condividere il tempo per la nutrizione, insieme agli altri, è uno degli elementi fondamentali della “dieta mediterranea”, tanto da essere stata posta alla base della “nuova piramide alimentare”, su proposta dall’Istituto Nazionale per la Ricerca degli Alimenti e della Nutrizione. Grazie al mangiare insieme, si rafforza il fondamento culturale delle relazioni interpersonali, a garanzia dell’identità e della continuità sociale e culturale, sia delle comunità, sia degli individui che le compongono. Era diffusa, tra i patrizi, un’abitudine perniciosa: quella di provocarsi il vomito, durante i convivi più fastosi. Oggi, questa pratica rimane appannaggio, soprattutto, di persone affette da patologie psico-alimentari, come anoressia e bulimia, ma continua ad essere estremamente dannosa. Molte le complicanze: deficit di vitamina B12, di folati e ferro, squilibri idroelettrolitici, squilibri del metabolismo acido-base, complicanze esofago-gastro-intestinali, erosione dei denti. L’ alimentazione dei nobili era quindi fondamentalmente scorretta e causa di numerose malattie. Basata sull’assunzione smisurata di cereali e legumi, procurava una lunga serie di patologie collegate: obesità, diabete, carie, disturbi cardiovascolari e cancro, anche se in molti non raggiungevano l’età critica per patire questo genere di problemi. Un dato incontestabile è che l’uomo, per milioni di anni, non si è cibato di pane, polenta, pasta (che contengono l’80% di zucchero), bensì di verdura, radici, tuberi, frutta fresca e secca, carne, pesce e uova. Risalendo alla vera storia biologica della specie, sappiamo che l’uomo preistorico, due milioni e mezzo di anni fa, moriva giovane, per cause legate a predatori, a carestie, al clima, non certo per malattie dipendenti da un’alimentazione sbagliata. L’uomo degli ultimi due millenni, ha modificato profondamente il proprio sistema nutritivo. Un dato significativo, a tal proposito, riguarda il vitto militare dei Romani, composto principalmente da pane o da una pappa di cereali, detta “puls”, accompagnati da olive, cipolle, fichi, vino e olio. Anche i legumi secchi consentivano al legionario di trasportare, con poco peso e ingombro, grandi quantità di cibo. I primi dati attendibili e dettagliati di cui si dispone, possono ricondurre la razione quotidiana del soldato a circa cinquemila calore, per l’uomo intento a lavori di costruzione e a seimila per il combattente. A quasi un chilo e trecento grammi di cereali, si aggiungevano circa tre etti di carne, che però i conquistatori dell’Impero non mangiavano volentieri. Quella dell’esercito era una porzione più ricca di circa tremilacinquecento calorie al giorno, rispetto alla media delle milizie europee negli ultimi cinquecento anni e tendeva a fare del legionario un individuo corpulento, il cui sovrappeso non è solo leggenda. Gli si chiedeva soprattutto di occupare, di sopportare e di resistere. La sua forza proveniva dal poter rimanere immobile, ben corazzato, sotto i colpi del nemico. Quando l’esercito romano aveva bisogno di combattenti mobili, svelti e veloci, come ad esempio gli arcieri, impiegava gli alleati barbari. La sua superiorità nelle imprese belliche era dovuta alla perfetta organizzazione della struttura militare e logistica, al rigore dell’addestramento, alle macchine da guerra e alle armature, alla strategia. Tuttavia, dal punto di vista della forza fisica, il milite romano era inferiore ai Celti o alle popolazioni germaniche. Questo derivava dal fatto che i barbari, generalmente, non coltivavano i campi, non si nutrivano di cereali e legumi; erano cacciatori, raccoglitori e consumavano selvaggina e vegetali. E’ quella che viene denominata “alimentazione ancestrale”, cioè, come già accennato, la nutrizione dell’uomo cacciatore, protrattasi per due milioni e mezzo di anni, sostituita da quella dell’uomo allevatore e coltivatore degli ultimi diecimila anni. La loro energia, infatti, non derivante dal glucosio, ma dal glucagone, prodotto dal consumo dei grassi, durava molto di più e consentiva ai barbari una maggiore resistenza nel combattimento corpo a corpo. L’olio crudo, di cui facevano largo uso, preveniva le malattie cardiovascolari. L’oleuropeina, contenuta nelle olive nere, tra l’altro, è un polifeonolo che ha capacità antitumorali e antinfiammatorie. Anche i capperi, che i Romani consumavano spesso come aperitivo, sono un alimento preziosissimo, ricco di quercetina, un flavonoide antiossidante e antistaminico.
Non solamente oggi ci si preoccupa delle ricadute sulla salute del consumo dei cibi; anche gli uomini dell’antichità si erano accorti di questo stretto rapporto causa-effetto. Galeno di Pergamo (130-200 d.C.), medico e filosofo greco, trasferitosi a Roma e divenuto archiatra personale dell’Imperatore Marco Aurelio e del figlio Commodo, fu l’artefice dei principali passi in avanti dell’arte medica, in questa direzione. Nei suoi trattati, si descrivono infatti gli effetti esercitati da alcuni cibi sul corpo umano.
Rileggere Galeno, oggi, può essere fonte di studio non solo per i classicisti e per gli storici, ma per tutte le persone interessate alla storia degli alimenti.

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