Il Dolore Cronico e la Terapia del Dolore – Seconda Parte

Nel gennaio del 2004, al termine di un lungo lavoro di studio e di approfondimento, le Associazioni di Cittadinanza operanti nei Paesi dell’Unione Europea hanno presentato alle istituzioni nazionali la “ Carta Europea dei diritti dei pazienti”, un documento che proclama ben quattordici diritti fondamentali che i Sistemi Sanitari Nazionali devono poter garantire ai cittadini europei nel campo della tutela della salute. Ad esempio, per citarne uno, l’art. 11 (Diritto ad evitare le sofferenze ed il dolore non necessari) afferma: “ Ogni uomo ha il diritto ad evitare quanta più sofferenza possibile, in ogni fase della sua malattia. I servizi sanitari devono impegnarsi ad assumere tutte le misure utili a questo fine, fornendo cure palliative e semplificando l’accesso di pazienti ad esse”. A causa del sempre più elevato numero di persone colpite da dolore cronico, nel novembre 2015, al Parlamento Europeo è stata presentata la “Carta Europea dei Diritti dei Cittadini con Dolore Cronico”,  che ha lo scopo di sensibilizzare le amministrazioni di tutta Europa a considerare la fine del dolore un diritto sociale.
Pur non trattandosi di enunciazioni accademiche, però, ancora oggi il problema del dolore trascurato o male affrontato, che non riguarda solo le conseguenze delle patologie oncologiche, ma anche il dolore post-operatorio, post-partum ed il delicato settore pediatrico, è presente in molti luoghi di cura e molti pazienti continuano a soffrire, quasi si trattasse di un prezzo da pagare nel percorso terapeutico.  Nonostante il dettato normativo comunitario, l'analisi della realtà italiana mostra quali e quanti siano, ancor oggi, i fattori che ostacolano una completa presa in carico ed assistenza del malato, secondo i profili citati.
Sul questo punto, pur senza riconoscere in modo esplicito l’operatività di un diritto a non soffrire, il codice medico deontologico del 1998 afferma testualmente (art.37) che, “ in caso di malattie con prognosi sicuramente infausta, o comunque giunte alla fase terminale, il medico dovrà ispirare il suo operato alle finalità del sostegno morale e dell’erogazione di ogni terapia antidolorifica fornendo a chi è in difficoltà, per quanto possibile, i trattamenti che sono idonei a preservare la qualità della vita”.
Esistono, però, ombre e resistenze di tipo prettamente culturale da parte di chi sostiene che il dolore sia solo un sintomo della malattia e, di conseguenza,  non valutato per se stesso.
E’ purtroppo questa, verosimilmente, la ragione per cui, in Italia, rare continuano ad essere le strutture ospedaliere concepite ed attrezzate specificamente per il trattamento della sofferenza, a favore dei soggetti terminali, nonché il motivo per cui trascurabili rimangono, nel complesso, i fondi pubblici e privati destinati alla ricerca in tale campo. Tali mancanze, inevitabilmente, ricadono sul terreno privatistico, almeno per quanto concerne la definizione dei doveri gravanti sul medico curante, sul capo-reparto e sula Direzione dell’ospedale. In particolare, tenuto conto anche delle indicazioni offerte dal diritto comparato (in particolare, delle tracce fornite dalla dottrina statunitense) i punti chiave della fattispecie in esame risultano essere un tutt’uno con la necessità di ravvisare, nelle iniziative di lotta contro il dolore, uno degli obblighi principali gravanti sul comparto sanitario, al pari di tutte le incombenze che attengono, in generale, al trattamento della malattia. Deve essere sottolineato il risalto che tale dovere, tenuto conto anche delle previsioni di cui al codice deontologico, assumerà rispetto a un paziente al quale sia stata diagnosticata una patologia ad esito infausto, ricondotto ogni episodio di imprudenza e lassismo, oltre che, beninteso, ogni deliberata omissione sul terreno della colpevolezza professionale. Si deve prendere atto come tra le poste da computare, in caso di mancata opposizione alle sofferenze insopportabili, vi siano tutte quelle familiari al repertorio dell’illecito e cioè danno patrimoniale (danno emergente, lucro cessante, nella misura in cui il dolore abbia pregiudicato qualche possibilità di lavoro), danno biologico e danno esistenziale (in relazione alle attività realizzatrici di cui la sofferenza non combattuta possa aver ostacolato lo svolgimento), danno morale in senso stretto (angustie, disperazione, affanni etc.).     Il dolore e la sua sofferenza rappresentano incidenze negative sulla fase finale della vita di una persona. Essi avranno, dunque, rilevanza sul terreno giuridico ogniqualvolta sulla loro esistenza, o anche soltanto sulla loro intensità, abbia influito un atto illecito. Sul profilo della legittimazione attiva, si sottolinea come il primo posto spetterà alla persona stessa del malato.  Nei confronti di un malato terminale,  qualunque ristoro non potrà che assumere, considerati i tempi della giustizia, coloriture virtuali o platoniche. Comunque non manca alla condanna risarcitoria un significato che va pur al di là della figura specifica del  malato terminale (trattandosi di un cespite, perlomeno de iure condito, destinato a trasmettersi agli eredi).         Del resto, di danno patrimoniale vero e proprio, rispetto a un paziente in fin di vita, non potrà parlarsi se non in un numero ristretto di casi, vale a dire, stando ai profili del lucro cessante, allorquando ci si trovi dinanzi a qualcuno che sarebbe stato in condizione di svolgere ancora un’attività lavorativa e che dalle sofferenze, ingiustamente subite, si sia visto impedire tale possibilità. Più significativa, nei confronti del soggetto malato, la risarcibilità del danno non patrimoniale. Una possibilità questa, va sottolineato, destinata a entrare in gioco con riguardo a entrambi le voci paventabili, e cioè sia nei confronti del danno morale (pianto, prostrazione, abbattimento), sia rispetto al danno biologico-esistenziale (riferito alle varie attività compromesse a seguito di quei patimenti: legami affettivi, rapporti con la natura, coltivazione di arti e mestieri, talvolta la possibilità stessa di leggere, parlare, telefonare, mangiare, e così via). Quanto ai soggetti diversi dal malato, va rilevato come la cerchia dei legittimati attivi non si estenderà, secondo i principi consueti, molto al di là della cellula familiare (comprensiva ancora una volta delle unioni di fatto ragionevolmente stabilizzate). E merita  osservare che il danno patrimoniale risulterà circoscritto, tendenzialmente, ai momenti del lucro cessante, coincidendo con l’insieme delle iniziative che sono state ostacolate o interrotte (per ragioni di tempo, di soldi, di spazio, di prostrazione, etc.) dalla necessità di fornire assistenza al parente che soffre. Stesso discorso per quanto concerne i profili del danno esistenziale, con la differenza che si tratterà di prendere in considerazione, questa volta, momenti di tipo prettamente non reddituale (fra cui un posto di primo piano assumeranno, beninteso, quelli attinenti al piano delle relazioni col malato stesso).
(Continua nell’edizione di domani)

 

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