Di necessità virtù: quando le armi della Seconda guerra mondiale si trasformarono in beni per la ricostruzione postbellica

I continui disastri ambientali, che stanno mettendo a dura prova l’Umanità, sono diretta conseguenza del nostro sconsiderato comportamento su questa casa fatta perlopiù d’acqua salata, un affascinante minuscolo puntino azzurrognolo che da milioni di anni ci permette di prosperare in mezzo al nulla dello spazio cosmico. Di fatto, da decenni, gli scienziati ci avvertono della necessità di ridurre inquinamento e consumo delle risorse naturali, ovviamente non infinite e molte delle quali sempre più oggetto di pericolose contese geopolitiche. Così, già da molto tempo, il mondo produttivo ha avviato politiche serrate di riciclo, tra cui ricordiamo quelle “storiche” del vetro e dei materiali plastici. Ma tutto ciò è davvero frutto della moderna coscienza scientifica e politica del mondo di fine ‘900? Beh, non proprio.
Ancora una volta ciò che facciamo oggi, per quanto possa sembrare strano, arriva dal nostro passato, in particolare da quel tremendo spartiacque storico rappresentato dai due conflitti mondiali del ‘900. Vi ho già raccontato in altri articoli che molta della tecnologia attuale, con le dovute evoluzioni, non è altro che il frutto di quel fervore industriale e scientifico che gli umani, in modo diabolico, nella prima parte del Secolo breve, misero in campo per trovare modi sempre più efficaci di “uccidersi a vicenda”. Alcuni esempi sono il microonde e i sistemi antitaccheggio, aggeggi provenienti da dispositivi militari come il radar o i sistemi di sicurezza degli aerei britannici.
Già dalla Grande guerra, primo vero scontro tra ampi eserciti industrializzati, molti dei materiali lasciati sul campo di battaglia in Italia, al termine del conflitto, furono intelligentemente riutilizzati da contadini, artigiani e massaie. Gli oggetti più semplici da riciclare erano ovviamente gli elmetti dei soldati, spesso persi in combattimento, non danneggiati e della forma giusta per poter costruire qualcosa di nuovo, pacifico e utile. Fu così che nelle campagne del nord comparvero presto copricapo militari trasformati in cestelli raccogli frutta, imbuti, vasi da notte, pentole e scolapasta, padelle per arrostire castagne o tostare nocciole, mestoli o attrezzi forati e sagomati per la semina dei campi. Inoltre, perfino le impugnature in legno delle bombe a mano, di ottima qualità, vennero riutilizzate furbamente come manici per pentole, martelli, attrezzi agricoli o, più semplicemente, come risorsa per accendere fuochi da cucina o per riscaldarsi con i caminetti. E se le industrie corsero ad accaparrarsi e recuperare i preziosi cavi telegrafici, non furono da meno gli artigiani locali che, seppur più limitatamente, li trasformarono in parti e rivestimenti per scarpe, sedie, bottiglie e damigiane. Un fervore che oggi metterebbe in crisi anche il più attivo degli ecologisti!
Ma, come vi ho raccontato in tanti articoli e nella mia trilogia “I Caduti di Pietra“, durante il ventennio che portò il mondo verso la tremenda e tecnologica Seconda guerra mondiale (N.d.R.: dal 1919 al 1939), sostanzialmente una studiata tregua per riorganizzare eserciti e produzioni industriali, il riciclaggio delle preziose materie prime, ad esempio ferro, oro e legno, divenne un’ossessione sempre più pressante tanto che in Italia, ad esempio, si arrivò alle famose “giornate della fede” per donare l’oro alla Madre Patria, o all’emissione, poco prima dell’ingresso in guerra, delle norme per il sequestro di cancellate ferrose di parchi, aiuole, palazzi, etc., arrivando fino ai prelievi forzosi da monumenti e storiche campane dei nostri borghi.
Ma fu proprio al termine della Seconda guerra mondiale che, in un’Italia perdente e semidistrutta, si sviluppò massivamente il fenomeno del riuso dei residuati bellici. Un Paese pesantemente bombardato dagli angloamericani, fatto saltare in aria dai tedeschi in ritirata, terreno di scontro tra eserciti motorizzati con carri armati, pezzi d’artiglieria e tante automobili fuoristrada, tra cui ricordiamo le famosissime Jeep americane e le Kübelwagen tedesche da cui poi nacque l’iconico “maggiolone” della Volkswagen, aveva ovunque pericolose ma anche indispensabili risorse da recuperare.
Così, in maniera più massiva rispetto alla precedente guerra, anche per i materiali più nobili e tecnologici usati dall’industria degli anni ’30 e ’40, da nord a sud gli italiani si trasformarono in riciclatori seriali per diletto, povertà, intelligenza, o magari semplicemente per ripulire i propri territori da quel metallo “sporco” ma in qualche modo utile alla ripartenza.
Soprattutto nei luoghi coinvolti dalle grandi e lunghe battaglie, dall’alto casertano e basso Lazio della Linea Gustav, fino alla Linea Gotica tosco-emiliana, artigiani e contadini riuscirono a recuperare e trasformare componenti di carri armati e semoventi, bossoli di cannone, baionette, elmetti, maschere antigas, bombe a mano da lancio (soprattutto tedesche), mine anticarro, mine antiuomo (addirittura in vetro), lanciarazzi anticarro (soprattutto i Panzerfaust tedeschi) e perfino diverse tipologie di contenitori per munizioni. Una varietà incredibile di riusi che si può facilmente toccare con mano, o leggere, grazie all’attivissimo collezionista romagnolo Bruno Zama (ultimo testo Smalti tedeschi WW2 – ISBN 9788894336528, GRB-ANER editore, scritto insieme al Prof. Jean Pascal Marcacci), il quale da anni porta in giro questi oggetti che non solo incuriosiscono, ma lasciano davvero pensare a diversi interessanti aspetti della società italiana del dopoguerra, della ricostruzione.
Davvero affascinante vedere da vicino, oltre a macine messe in moto da ruote dentate di carro armato e portoni di casa creati con le grelle degli aeroporti mobili americani, i tanti portacandele derivati da maschere antigas, come pure simpatiche lampade a petrolio, schiumarole o colini ricavati dagli alloggiamenti metallici dei filtri salvavita per i soldati. E l’italica pasta, spesso fatta in casa, come poteva essere scolata se non recuperando i tanti elmetti tedeschi che, bucherellati, sembravano esser fatti apposta per lo scopo? Gli stessi, forse con una certa ironia, furono pure trasformati in vasi da notte e mestoloni per liquami!
Bellissimi poi i vasi decorati ricavati dalle mine antiuomo tedesche glasmine 43, armi costruite con il vetro per non essere identificate dai metal detector americani. E per trasportare latte e acqua? Semplice, ci si affidò ai numerosissimi bossoli di artiglieria di grande calibro che, puliti e verniciati, erano lì pronti all’uso, poi riadattati pure come pratiche padelle smaltate di medie dimensioni. Inoltre, tanti panzerfaust abbandonati dalla Wermacht in ritirata, il bazooka dei nazisti, come per magia divennero teiere, caffettiere, tazze da caffè, imbuti o mestoli.
Una vivacità che dimostra ancora una volta quanto conosciamo poco noi stessi e il nostro passato. Tante pratiche intelligenti, tra cui quelle del riciclo, del riutilizzo per evitare lo spreco, potrebbero essere semplicemente copiate da un passato che, col sangue, ci ha insegnato davvero il valore dell’ingegno e della sopravvivenza. Che ne dite, lo spieghiamo anche a Greta?

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