I veri vincitori di Waterloo (seconda parte)

Si è visto, nella prima parte, come due dei figli di Meyer Amschel Rothschild, Kalmann e Solomon, tra il 1809 ed il 1810, con le loro veloci carrozze e con un organizzato sistema di comunicazioni, a più riprese, abbiano cercato, riuscendovi, a far giungere a Londra, dove il fratello Nathan lo attendeva a braccia aperte, tutto il denaro da riconsegnare al Langravio d’Assia-Kassel, Guglielmo IX, per investirlo, nell’immediato, in tratte pubbliche inglesi. Solo nel 1811, e solo dopo una violenta scenata, prima a Carl Friedrich Buderus, suo consigliere, e poi anche ad uno dei giovani Rothschild, il Langravio poté rientrare in possesso dei propri averi, sotto forma di titoli, attestanti l’acquisto di 189.500 sterline. Nathan aveva, inizialmente, depositato in banca a suo nome, e non a quello del legittimo proprietario, l’intera somma. Quanto gli riuscì di farla fruttare, prima di restituirla, è difficile sapere. Di certo, quell’anno, acquistò, dalla Compagnia delle Indie, lingotti d’oro per circa 800.000 sterline. Per un privato e per quei tempi, era una somma da capogiro, se si considera che essa equivaleva a circa il 50% delle riserve auree della Banca d’Inghilterra. L’affare con la Compagnia delle Indie, comunque, non fu fine a sè stesso. Nathan conosceva bene la modestia delle disponibilità del governo britannico e la contemporanea necessità nella quale esso si trovava di far pervenire, in un modo o nell’altro, forti sostegni economici a Sir Arthur Wellesley, I Duca di Wellington, impegnato a combattere il mortale nemico francese, nella penisola iberica. Fu questa situazione ad aprire, per i Rothschild, la terza strada verso la ricchezza. Il loro uomo di Londra, Nathan per l’appunto, rivendette subito il prezioso metallo al governo di Sua Maestà Britannica, senza guadagni eccessivi, ma di certo non al di sotto dell’effettivo valore e si assunse poi l’onere di versare a Wellington la cifra necessaria per il prosieguo della guerra, con un piano, almeno sulla carta, ritenuto semplicissimo. Si trattava, in pratica, di proseguire con le spedizioni di ghinee verso la Francia e farle giungere, a Parigi, nelle mani del fratello James. Questi le avrebbe offerte ai soliti banchieri locali. Solo che, per l’occasione, le tratte ottenute in cambio non erano su Londra, ma su una piazza spagnola, con guadagni esorbitanti che, con questa complessa e rischiosissima operazione, entrarono in possesso di Nathan e della sua “mishpahà” (vocabolo yiddish, che significa famiglia). Meyer Amschel, che ormai non si muoveva quasi più da Francoforte, riuscì appena a vedere i primi grandiosi profitti, poiché morì, nella sua città, il 18 settembre 1812. Due anni prima, aveva avviato, con i figli maschi, il suo futuro impero bancario, una società le cui ferree regole vennero inflessibilmente applicate nel futuro. Il capitale impegnato, di 800.000 fiorini, che sicuramente non corrispondeva all’intero patrimonio familiare, fu suddiviso in 50 parti, di cui 24 assegnate a lui ed al figlio Solomon, mentre le restanti, divise equamente tra Kalmann e James. Nathan, il “suddito nemico”, non venne citato negli atti notarili, ma sicuramente quasi tutta la quota paterna fu di sua spettanza. Nell’autunno del 1813, subito dopo la “Battaglia delle Nazioni”, come venne chiamata quella di Lipsia, dal 16 al 19 ottobre, e la ritirata di Napoleone ad ovest del Reno, Guglielmo IX poté far ritorno a Kassel e rientrare in possesso anche dei suoi possedimenti terrieri. Il Langravio era, comunque, diventato un personaggio secondario, nel vorticoso giro d’affari organizzato dai Rothschild. Le loro attività, i loro rapporti, le loro ambizioni, travalicavano di gran lunga gli angusti confini del langraviato. Un alto funzionario delle Finanze inglesi, tale John Herries, lasciò scritto nelle sue memorie, che tra il 1811 ed il 1816, più della metà delle somme girate dall’Inghilterra all’Europa, ad esclusione dell’Austria, per finanziare le spese di guerra e quelle di occupazione poi, che si aggiravano in più di 80.000.000 di sterline, passarono dalle mani di quella famiglia. Non si posseggono dati assoluti sulla loro ricchezza, ma è noto, ad esempio, che nel marzo 1815 il capitale della società era di 3.332.000 franchi e che nel 1818 esso era già salito alla cifra astronomica di 42.528.000, un importo assai vicino a quello di tutte le riserva auree della Banca d’Inghilterra e pari a circa i 2/3 del capitale della Banca di Francia. Un balzo strabiliante, ma più che credibile, visto che fra l’aprile ed il dicembre 1815, i profitti della sola sede bancaria parigina, non ancora autonoma, erano saliti, da soli, a 1.150.000 franchi. Un contributo non indifferente a quel salto arrivò dal modo con cui Nathan Rothschild fece fruttare la notizia della vittoria di Wellington, a Waterloo. Biografi e scrittori, interessati più a costruire una leggenda, che a stabilire la veridicità dei fatti narrati, si sono abbandonati ai più audaci voli della fantasia. Vi fu chi affermò che Nathan conobbe l’esito della grande battaglia, attraverso un messaggio fattogli pervenire con alcuni piccioni viaggiatori e chi, addirittura, ne diede per indiscutibile la presenza sul terreno dello scontro, narrando il suo rocambolesco ritorno a Londra, su di un mare così tempestoso, che solo un miracolo impedì il naufragio. Gli eventi si svolsero, sembra assodato, in maniera molto meno complicata e, tutto sommato, più consona a quel che si sa sull’organizzazione della raccolta e della trasmissione di notizie, che i Rothschild avevano da tempo avviata ed in seguito perfezionata. Il 18 giugno 1815, il giorno dopo la conclusione della battaglia, un agente dei Rothschild, un certo Henry Rothworth (strano cognome, da molti ritenuto lo pseudonimo di Nathan), si imbarcò nel porto olandese di Ostenda, con destinazione Folkestone, portando con sé la copia di un quotidiano locale, che annunciava, a tutta pagina, la sconfitta di Napoleone Bonaparte. In Inghilterra, dove giunse all’alba del 20 giugno, trovò ad attenderlo sul molo il nostro Nathan, il quale, con quel giornale in tasca, rientrò immediatamente nella capitale inglese. Dopo aver informato il Governo, pretendendo il massimo riserbo sulla notizia, si recò in borsa. Lì, ostentando incertezza, preoccupazione ed amarezza, incominciò a vendere, ed a far vendere dai suoi uomini, quantità enormi di titoli di stato. Il pubblico e gli agenti di cambio non ebbero dubbi. Sapevano che lui era in grado di avere informazioni e più rapidamente di ogni altro. Quel suo comportamento era sicuramente legato all’intima e documentata convinzione, che le armate coalizzate contro l’Imperatore dei francesi, avrebbero patito, in quello scontro iniziato alle porte di Bruxelles, l’onta cruenta della sconfitta. E si misero a vendere, a vendere quanto più potevano, ed a prezzi sempre più bassi, sicuri che l’annuncio ufficiale li avrebbe fatti salire alle stelle. Nathan, parallelamente ed attraverso prestanomi, acquistò tutto quanto gli fu possibile. Allorché si seppe come realmente erano andate le cose, si trovò di un colpo più ricco di alcune centinaia di migliaia di sterline. E moltissimi, ben più poveri o addirittura rovinati. I titoli venduti risalirono vertiginosamente alle precedenti quotazioni e più in alto ancora. E se è esagerato affermare, come hanno fatto in molti, che Nathan sia stato il vero vincitore di Waterloo, è nondimeno indiscutibile che fu tra la schiera dei vincenti e quello che ne trasse i benefici maggiori. Fu una logica conseguenza che i banchieri, che avevano dato un potente e fondamentale contributo economico al trionfo delle potenze europee sulla Francia, dovessero essere i banchieri di fiducia dei vincitori, entrando a pieno titolo nella gestione economica della Santa Alleanza, voluta da Alessandro I di Russia e condivisa da Federico Guglielmo III di Prussia e da Francesco II d’Austria, una dichiarazione politica, divenuta sistema che, dal momento della sua firma, il 26 settembre 1815, fino al 1830, regolò la vita dei principali Stati continentali. Ed i Rothschild, come sempre, furono determinatamente presenti. Nel 1817 poterono addirittura aggiungere, al loro cognome, un nobilitante “von” e, soltanto cinque anni dopo, furono nominati baroni dell’Impero. La morte di James, avvenuta il 15 novembre 1868, segnò la scomparsa dell’ultimo grande banchiere privato. Un’epoca intera della storia finanziaria scompariva con lui, ma non la sua famiglia.
Al di là delle vicende individuali, le grandi spinte di fondo non possono, prima o poi, non affermarsi, anche se è l’azione umana che le rende concrete ed operanti e ne disegna modalità e consistenza. Fu per la forza di tale spinta che, più tardi e fino ai giorni nostri, i discendenti del giovane Meyer Amschel, detto Bauer (contadino, in tedesco), ebreo francofortese, il quale un giorno si incamminò da Hannover verso casa, dopo aver imparato la fine e scaltra arte del suo mestiere, poterono risalire sulla cresta dell’onda, ritornare soggetti alla curiosità dei giornalisti, offrire argomenti alla penna di scrittori e percorrere i corridoi segreti, della grande e contorta politica, nazionale ed internazionale.

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