Bartleby lo scrivano: l’interpretazione di Leo Gullotta

«Avrei preferenza di no». È con questa frase che esordisce Leo Gullotta, nei panni del personaggio creato da Herman Melville, alle richieste dei suoi sbalorditi colleghi. La locuzione costituisce il fil rouge dell’intera sceneggiatura teatrale, liberamente ispirata al celebre racconto americano.
A dare inizio allo spettacolo è una breve e tumultuosa presentazione dell’ambiente: uno studio legale, i dipendenti che sbrigano le loro faccende, la signora delle pulizie che spazza il pavimento; il quadro perfetto dell’ordinaria società, scandito da un brano strumentale dal ritmo frenetico. Improvvisamente inizia il vero e proprio racconto: il titolare dello studio legale (interpretato da Dimitri Frosali) – un uomo onesto, ligio al dovere e generoso – si presenta al pubblico e introduce gli altri personaggi in un monologo introduttivo. Il signor Turkey (Massimo Salvianti), il signor Nippers (Andrea Costagli) e la signorina Ginger (Lucia Socci) sono i tre dipendenti, la signora Rita (Giuliana Colzi) è la donna delle pulizie. Ognuno ha i propri pregi e difetti, battibeccano spesso, sono un po’ tutti logorati dallo stress lavorativo. In questo vortice si inserisce la “figura pallidamente linda” di Bartleby, un uomo pacato dallo sguardo disincantato. È un eccellente scrivano, lavora instancabilmente, ma vive in un universo tutto suo, che gli impedisce di relazionarsi in modo “ordinario” con gli altri – forse questi ultimi vittime della spietata macchina delle convenzioni sociali. Il signor Bartleby risponde solo ad alcune richieste, sempre iniziando con la famosa locuzione “Avrei preferenza di…” e affermando la sua estraneità allo snaturato mondo esterno. Non fa caso ai ritmi del tempo, o meglio, al circolo di abitudini umane che incasellano quest’ultimo. Non esiste giorno né notte, è lui ad esistere all’interno della sua piccola vita. C’è chi ha compassione per lui, chi se ne prende gioco e lo trova un nullafacente: è quando decide di non lavorare più che, infatti, inizia la sua audace ascesa verso l’autonomia assoluta.
Il principale scopre, poi, che il suo dipendente non ha casa, né amici, e che per questo motivo abita nello studio. Disperato e impietosito dalla situazione, invita insistentemente Bartleby a vivere a casa sua, ma nulla da fare: è costretto a licenziarlo e a trasferire l’intero studio altrove.
Questa Wanderung mentale è fuori dagli schemi di chi circonda il singolare personaggio e gli costa la libertà: viene infatti arrestato per vagabondaggio ed è nella cella che trova la fine dell’opprimente perlustrazione dell’uomo contemporaneo. Nessuno si accorge della sua anima dispersa – seppur coerente e determinata – né si è mai curato della sua estrema singolarità. L’unico è forse il titolare dello studio, che chiude lo spettacolo con un monologo di chiusura, accompagnato dallo spasmodico brano introduttivo: in passato Bartleby lavorava nell’ufficio delle lettere smarrite, laddove le lettere mai ricevute venivano esaminate e spesso gettate via. È quanto accade ancora, d’altronde, alle solitarie anime reiette, senza spazio né tempo sufficiente per loro, nel circolo di abitudini della vita lavorativa, e non solo.

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