L’eroe del sole ed una fine troppo frettolosa (2ª ed ultima parte)

“La Volpe del Deserto”, Erwin Rommel, come si è detto nella prima parte, era adorato dai propri uomini, un sentimento condiviso anche da molti soldati italiani, i quali vedevano nel suo atteggiamento qualcosa di radicalmente diverso dal modo di pensare e di agire dei loro comandanti di grado elevato, ahimè, dalla mentalità un po’ antiquata e fedeli alla formula “la sicurezza personale prima di tutto”. In più, a tutti i subordinati, e specialmente agli ufficiali inferiori più dinamici, offriva sempre la possibilità di dar prova delle proprie doti, cosa che contribuì sensibilmente ad aumentare quella stima.
In campo strategico, si distinse spessissimo per le sue brillanti astuzie ed il senso del bluff. Si serviva dei propri carri armati come esca, per attirare quelli britannici in trappole intensamente battute dalle artiglierie anticarro. Così, la difesa si combinava efficacemente con l’attacco. Questa “tattica alla Rommel” fu poi largamente adottata, da tutti gli eserciti, negli ultimi anni di guerra.
Quando lasciò l’Africa, la sua partenza dispiacque anche agli avversari, tanto era il posto che egli era arrivato ad occupare nella loro esistenza quotidiana e nella loro immaginazione. In parte, era sicuramente dovuto alla fama del buon trattamento che riservava ai prigionieri britannici; anzi, a giudicare dal numero di quelli che riuscivano ad evadere ed a ritornare nelle proprie linee, magari dopo averlo incontrato personalmente, si arrivò a pensare che al suo atteggiamento cavalleresco si mescolasse un disegno strategico. Ma ancora più grande era l’impressione prodotta dalla sua celerità di manovra e dalle stupefacenti riprese, dopo che, in apparenza, era stato abbattuto.
Come stratega, dei calcoli errati avevano oscurato, talvolta, la sua sottigliezza e la sua audacia; come tattico, le qualità eclissavano invece i difetti; come condottiero, infine, l’eccezionale combinazione che era in lui, di perspicacia e di dinamismo propulsore, era accompagnata, non di rado, da un temperamento incostante, così da andar soggetto ad oscillazioni troppo violente, tra l’esaltazione e la depressione.
Nel 1944 Rommel tornò alla ribalta come Comandante di un Gruppo di Armate, sulla costa francese della Manica, per contrastare l’invasione anglo-americana. Si ritrovò agli ordini del Feldmaresciallo Gerd von Rundstedt, Comandante in Capo delle forze tedesche in Occidente. Le loro opinioni, circa il modo migliore di opporsi all’invasione ed il luogo dove molto probabilmente sarebbe avvenuto l’atteso sbarco alleato, divergevano totalmente. Hitler, dal canto suo, era fermamente convinto che tutti i ripetuti tentativi nemici di approdare in Normandia erano solo un banco di prova di un consistente attacco tra Le Havre e Calais. Previsione corretta ma, dal momento che in Occidente mancava una riserva generale adeguata, Rundstedt e Rommel, di comune accordo, in quella circostanza, avrebbero voluto crearne una, facilmente manovrabile, da prelevare dalle regioni meridionali della Francia. Il Führer non aveva alcuna intenzione di sanzionare una misura del genere. Intere divisioni tedesche dovettero, quindi, rimanere aggrappate alle loro posizioni, finché il martellamento avversario non le ebbe ridotte in frantumi. Un’inflessibilità, quella dell’imbianchino austriaco che, in definitiva, costrinse a ripiegamenti assai ben più profondi di quelli proposti. Il 6 giugno 1944, il “D-Day Invasion”, l’atteso giorno del massiccio sbarco, quel testardo rifiuto condusse, inevitabilmente, a fatali conseguenze. Le invincibili armate tedesche non riuscirono a contrastare l’incalzante fuoco delle più organizzate truppe anglo-americane.
La comune condivisione della mancanza di sbocchi della politica hitleriana aveva creato, fra i due generali, un accordo assai più stretto di quello iniziale. Alla fine di giugno, a poche settimane dal disastroso insuccesso, su insistente invito di entrambi, Hitler si recò in Francia, ma caparbiamente non volle acconsentire a nessuna loro nuova richiesta. Rundstedt gli manifestò, senza tante ambagi, insomma senza troppi giri di parole, che era vano continuare la lotta e che bisognava mettere fine alla guerra. Il Führer, stizzito, per tutta risposta lo rimosse, su due piedi, dall’incarico ed inviò, in sostituzione, il Feldmaresciallo Günther von Kluge, preferendolo di fatto a Rommel. L’atteggiamento di quest’ultimo, durante l’incontro francese, non gli era affatto piaciuto. Ma anche l’opinione, da sempre avuta del suo “idolo”, era intimamente mutata nel generale tedesco. In un momento di rabbia, aveva detto un giorno ad alcuni collaboratori che ormai l’unica speranza della Germania era di sbarazzarsi al più presto di Hitler e cercare di negoziare la pace.
Mentre percorreva una strada lungo il fronte, due “Spitfire”, del 412° Squadrone della Royal Canadian Air Force, mitragliarono da bassa quota l’auto di Rommel, che si capovolse. Era il 17 luglio 1944. L’autista morì sul colpo, lui fu proiettato fuori ed ebbe il cranio fratturato. L’incidente avvenne presso il villaggio di Sainte-Foy de Montgommery, un nome ironicamente assai appropriato. Fu trasportato in ospedale a Parigi. Tre giorni dopo, quando era ancora agonizzante tra la vita e la morte, il 20 luglio, avvenne l’attentato alla vita di Hitler.
Dopo tre mesi, ristabilitosi completamente, Erwin Rommel tornò a casa, ad Ulm, una cittadina del Baden-Württemberg, sulle rive del Danubio (nota soprattutto per aver dato i natali ad Albert Einstein), per un periodo di convalescenza.
Il Feldmaresciallo era informato del complotto? Secondo il figlio, che ne parlò molti anni dopo in un’intervista, assolutamente no. Anzi, si era sempre dimostrato contrario all’idea di uccidere il dittatore nazista, per evitare di farne un martire. Sembra ne avesse parlato, però, con alcuni congiurati, ma non denunciò mai la cosa. Di sicuro, conosceva il Colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, autore materiale del tentativo criminoso, ed il Generale Ludwig Beck, esponente di rilievo della resistenza militare al regime. Inoltre il suo Capo di Stato Maggiore in Francia, il Generale Hans Speidel, ebbe un ruolo centrale nell’organizzazione del colpo di Stato, chiamato “Operazione Valchiria” ed erano anche noti i suoi rapporti professionali con il Generale Karl Heinrich Von Stülpnagel, Governatore Militare di Parigi, il quale, dopo il fallimento della congiura, tentò invano il suicidio, per non essere interrogato dalla Gestapo, ferendosi gravemente. E sembra che proprio dalle incomprensibili parole deliranti di un agonizzante Stülpnagel, sia emerso più volte il nome di Rommel. Questi i collegamenti, ma nulla di realmente concreto sulle sue effettive responsabilità.
La condanna, accompagnata da un grosso dilemma per il regime, fu inevitabile. Comunicare alla nazione che il suo generale più famoso aveva a tal punto perso la fiducia nella vittoria finale e nel Führer, da volerne così fortemente la morte, avrebbe sicuramente ottenuto un effetto psicologico devastante sulla popolazione. Hitler decise, così, di proporre a Rommel una scelta: la sua vita, in cambio della salvezza per i suoi familiari. L’Ufficiale, il cui coraggio non poteva certo essere messo in dubbio, accettò. Dovendo comunque morire, di certo il veleno era meglio dell’impiccagione.
Quel 14 ottobre, al termine di un colloquio con gli emissari di Berlino, i Generali Wilhelm Burgdorf ed Ernst Maisel, salutò moglie e figlio, dicendo loro: “I miei colleghi mi hanno comunicato che sono stato riconosciuto colpevole di aver partecipato alla congiura e che il Führer mi ha dato l’opportunità di morire con il veleno. In questo caso, mi hanno assicurato che a voi non succederà nulla, non sarete internati in un campo di concentramento. Ho riflettuto ed ho deciso di accettare”. Poi uscì insieme ai due suoi carnefici. Dopo venti minuti telefonò a casa, per l’ultima volta, raccomandandosi di non dire mai a nessuno lo stato reale dei fatti. Se si fosse venuta a sapere la verità, li avrebbero fatti sparire per sempre.
La versione ufficiale fu di una morte sopraggiunta per improvvise complicazioni, causate dalle pregresse ferite alla testa. Al funerale, solenne e di stato, il discorso funebre lo tenne il suo ex Comandante in Francia, Gerd von Rundstedt, che, commosso, sottolineò: “Il suo cuore apparteneva al Führer“.
“Eh sì, tra dieci minuti sarò morto“. Rivolgendo queste parole alla moglie Lucie Marie e al figlio Manfred, il Feldmaresciallo Erwin Rommel, la “Volpe del deserto“, il Comandante dell’Africa Korps, il più famoso dei condottieri tedeschi, l’unico Generale di cui un ordine del comando inglese aveva vietato, per paura, di pronunciarne il nome, il 14 ottobre 1944, a soli cinquantadue anni, pose fine alla sua carriera, alla carriera di un soldato che, in possesso di una genialità autentica, unita ad un vigoroso dinamismo esecutivo, è stato un degno candidato al Pantheon dei grandi capitani della storia.

Condividi questo articolo qui:
Stampa questo post Stampa questo post