D’Annunzio, tra sfarzo estetico e intimismo evocativo

“Io ho quel che ho donato”. Lapidario, D’Annunzio così imprime sul marmo del Vittoriale degli italiani uno dei suoi motti più celebri, un’iscrizione racchiusa in un tondo recante la figura di una cornucopia, simbolo dell’abbondanza.
Intuitivamente il dannunzianesimo è più di una semplice espressione letteraria, rappresenta un vero e proprio fenomeno di costume, il cosiddetto “vivere inimitabile”, come un’opera d’arte di wildiana memoria, tra la ricerca del lusso, le sensazioni empiriche, edonistiche, le stesse a cui Lord Henry Wotton indirizzò Dorian ne Il ritratto di Dorian Gray.
Nato nel 1863 a Pescara, D’Annunzio frequenta da giovane il Convitto Nazionale Cicognini di Prato, uno dei più in voga tra le famiglie dell’alta borghesia, per poi trasferirsi a Roma alla facoltà di lettere de La Sapienza e nel contempo collabora a periodici quali La Tribuna di Roma e Il Mattino di Napoli. A seguito di alcune relazioni burrascose con i creditori, originate dallo stile di vita gaudente e dissoluto del poeta-vate, quest’ultimo sarà costretto a fuggire in Francia, dove rende edite alcune pièce teatrali. Torna nella così denominata “Patria ingrata” prima dello scoppio della Grande Guerra da deputato di estrema destra, schierandosi a favore degli Interventisti e, una volta iniziato il conflitto, alcuni scatti fotografici lo immortalano anche al fianco degli Arditi di Cadorna. Celebri sono il volo su Vienna, che causa al poeta il distacco della retina oculare destra e la marcia su Fiume, attraverso la quale sfida lo Stato italiano servendosi di reclute personali non riconosciute istituzionalmente. Non mancano tuttavia “salti del cavallo” politici, difatti nel 1900 D’Annunzio afferma “vado dove c’è la vita”, attratto, come suo costume, dalla forza e dalla fiamma effimera della Sinistra italiana del tempo.
D’Annunzio inorridito dal piattume e dalla “putredine” borghese, di cui fa menzione ne Le vergini delle rocce, indossa la maschera dell’esteta, rifugiandosi nella contemplazione del ‘bello artistico’ per gran parte della sua vita e tale atteggiamento avrà i suoi frutti attraverso la pubblicazione de Il Piacere, dove il dandy Andrea Sperelli appare “per così dire, tutto impregnato di arte”. Ma l’esteta è una figura fragile, inadatta a dare vita “all’ideal di tipo latino”, per cui la teoria dell’oltreuomo di Nietzsche trova risonanza nell’animo di D’Annunzio che, attraverso il rigetto di ogni tendenza egualitaria, democratica e liberista, intende creare una élite con identità storica radicata nei fasti dell’antica Roma e nell’Ellade. Da vero ‘principe rinascimentale’, trascorre i propri giorni nello studiolo di noce ornato da orpelli lignei, contornato di sfarzo e levrieri di razza presso La Capponcina sui colli Fiesolani, dedicandosi alla creazione di neologismi che ancora oggi esistono nel nostro dizionario italiano, basti pensare ai sostantivi “tramezzino”, al nome “Ornella”, a “La Rinascente” di Milano, alle “folle oceaniche”, al marchio Saiwa, un influsso non indifferente al linguaggio e alla comunicazione. Attento alle esigenze del mercato D’Annunzio sa “vendere” la propria immagine attraverso un’oculata pubblicità: lussi, scandali, duelli amorosi, che gli valgono l’attenzione della massa e delle sfere basse che tanto disprezza, di cui diviene il sopraffino prodotto creativo. D’Annunzio non è solo lusso e ostentazione, esteta intransigente capace di dileggiare amici e nemici cantando la modernità del primo Novecento, il rombo dell’automobile da corsa “col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo”, come direbbe Marinetti. Il poeta-vate canta la realtà che lo minaccia, è vero, la sua arte è ipocrita quando non serve e vera quando non deve. Il vero D’Annunzio è il poeta del periodo notturno: in ombra, nudo e senza maschera, in ombra a contemplare silenzio e solitudine, pausa e ricerca delle passioni pure mediante la memoria, la riflessione, il dolore fisico e mentale: “Ho davanti a me una parete rigida di roccia rovente scolpita d ′uomini e di mostri. A quando a quando sbatte come una immensa vela, e le apparizioni si agitano. Poi tutto fugge, portato via dal turbine rosso, come un mucchio di tende nel deserto”. “Gli stagni mi abbagliano come frammenti d′un cielo che crolli. Il vento è il palpito dello splendore. La poesia è la mia sostanza aerata. Il mio respiro è un canto immune dalla sillaba angusta”, il buio in una realtà in cui la bellezza dei rapporti inizia a vacillare e la società indosserà una maschera pirandelliana per tutta la vita.

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