Volgare brigante o eroico gentiluomo?

Quell’8 dicembre 1861, nevicava a Sante Marie, un piccolo borgo abruzzese, incastonato nelle montagne marsicane, in provincia dell’Aquila. E ci fu un gran trambusto quel giorno, in quel piccolo paese. Pochissimi militari, in parte a cavallo, in parte appiedati, furono i protagonisti di una vicenda poco conosciuta. Erano solo un manipolo di uomini che cercava di raggiungere lo Stato della Chiesa, per mettersi in salvo.
A guidarli, un generale spagnolo, di nome José Miguel Francisco Borjés, sbarcato al comando di uno striminzito drappello di suoi compatrioti, l’11 settembre a Brancaleone, sulla costa ionica calabrese, con il compito di raccogliere ed organizzare un grosso esercito, in difesa dei Borbone, fronteggiando l’invasione piemontese. Nei quasi novanta giorni della sua spedizione, in nome del re Francesco II, percorse in lungo e in largo, senza sosta, l’intera Italia meridionale, braccato dalle truppe sabaude, ripetutamente tradito, unitosi anche e perfino alle bande brigantesche, ma fallendo, tristemente, nel suo insostenibile tentativo.
In quel paese dell’Abruzzo, ad appena una decina di miglia dal confine della salvezza, decise di fermarsi per far riposare i suoi uomini, stremati dalla fatica. Con loro anche quei pochi seguaci italiani, semplici contadini incontrati ed arruolati lungo il tragitto, che non lo avevano abbandonato e che, contrariamente agli spagnoli, erano appiedati e senza scarpe. Pagò con la vita l’ennesimo atto di lealtà. Verso le dieci di quella plumbea mattinata festiva, dedicata al dogma dell’Immacolata Concezione e fortemente voluta da Pio IX, un battaglione di soldati sardi ed una compagnia della locale Guardia Nazionale gli furono addosso, lo raggiunsero alla Cascina Mastroddi, presso l’inghiottitoio Luppa, piccolo corso d’acqua che penetrava sprofondando nel terreno, lo circondarono, ingaggiando una violenta battaglia e lo catturarono. Trascinato nella vicina Tagliacozzo, insieme ai suoi sfortunati compagni, fu frettolosamente fucilato alla schiena, senza un processo, trattato come il peggiore dei banditi. E’ stato uno dei tanti martiri della nostra storia patria, che non ha trovato però un riscontro in quella ufficiale dei vincitori sardi e, successivamente, nemmeno in quella della Repubblica. Uno di quei tanti volti rimasti nell’ombra dell’oscurantismo risorgimentale, perché, si sa, un antieroe non piace se non combatte per i potenti che la decidono, la storia.
Il Generale José Borjés era nato, il 28 novembre 1812, in un piccolo paese catalano, oggi chiamato Artesa de Segre. Il padre Antonio, ufficiale legittimista, e la madre, Antonia Granulles, lo crebbero nel rispetto dei secolari simboli della tradizione: il trono e l’altare. In gioventù fu avvicinato alle idee antinapoleoniche, contrarie all’ideologia giacobina, tanto da arruolarsi tra le milizie carliste, sostenitrici dell’ascesa al trono spagnolo di Don Carlos, fratello del Re Ferdinando VII e contrarie alle forze liberali schierate, nella successione reale, con Donna Isabella, figlia minore del defunto sovrano. Nel 1833, con la sconfitta dei carlisti, fu costretto all’esilio in Francia. Nel 1860, ormai libero di rientrare in patria per concessione della sovrana Isabella II, decise invece di partire per Roma ed offrire i propri servigi al Papa. Quando alcuni mediatori lo avvicinarono, ancora in terra di Francia, per reclutarlo tra le fila dei sostenitori e dei combattenti della “causa duosiciliana”, la cui corte si era trasferita nella città papalina, lo spagnolo accettò con entusiasmo l’incarico affidatogli dal generale napoletano Tommaso Clary, di riconquistare, sotto l’emblema borbonico, il Regno delle Due Sicilie, avvalendosi dei comitati partigiani che, secondo le informazioni fornitegli dall’alto ufficiale, erano presenti in ogni località e lo avrebbero anche coadiuvato nel reclutare soldati fedeli al sovrano.
Ma le cose non andarono proprio così. Presero una brutta piega fin dall’inizio. Borjés appuntò su di una specie di diario, chiamato “Giornale”, tutta una serie di cocenti delusioni: ”…gli uomini che mi erano stati promessi non giungono…”;“…gli uomini che accompagnavano la nostra nuova guida si dileguano come il vapore…”; “…gli otto uomini che io aspettava non sono mai venuti…”; “…mi dicono che un distaccamento dei nostri è sbarcato a Rossano, ma è solo un’illusione…”; “…comincio a disperare di poter giungere a Roma, poiché le nostre forze diminuiscono di ora in ora ed il mio malessere aumenta…”; “…la gente di Crocco (era il bandito Carmine Crocco, detto Donatelli o Donatello, indiscusso capo delle bande del Vulture) fugge come un branco di pecore. Resto con i miei ufficiali e mostro disprezzo per quei vigliacchi, onde farli arrossire e costringerli a condursi meglio, se è possibile. Ma tutto è inutile…”; “…l’umidità, il freddo e la fame mi costringono a togliere il campo…”; “…siamo senza pane…”; “…i soldati muoiono di fame…”; “…ci accampiamo digiuni e senza pane…”; “…abbiamo marciato assai e vinti dalla fatica facciamo una sosta a…”. Con questa annotazione, il “Giornale” si concludeva! L’impresa del generale catalano fu tutta caratterizzata da inganni e tradimenti, a seguito dei quali venne più volte “venduto” al nemico. Sarebbe giusto ristampare, con criteri di maggiore obiettività, una pagina di cronaca, scritta soltanto ad uso e consumo dei vincitori, in maniera molto manichea. A loro tutti gli onori e le virtù, ai vinti il disprezzo e le colpe. Per fortuna anche tra i vincenti ci fu chi, come Carlo Angelo Bianco, Conte di Saint-Joriot, una “voce fuori del coro”, riconobbe la sventurata audacia di José Borgés.
Se a quel tempo, alla retorica risorgimentalista ed al neonato Stato Italiano faceva comodo demonizzare ogni oppositore ad un’unità faticosamente raggiunta e non ancora consolidata, oggi bisogna avere la forza morale di procedere ad una serena ed equilibrata ricostruzione degli eventi, evitando di continuare ad unirsi al peana dei vincitori, ma dando voce anche al coraggio sfortunato dei perdenti e riconoscendo il valore di questi “eroi contro”, che sacrificarono la vita ad un ideale nel quale credevano fermamente. Occorre farli uscire da quella “damnatio memoriae”, alla quale furono condannati. I cadaveri degli uomini di Borjés vennero inceneriti il giorno successivo alla fucilazione. Quello del Generale, dapprima tumulato in una chiesa di Tagliacozzo, fu riconsegnato alla famiglia, per intermediazione della Legazione di Francia a Roma, a condizione che i legittimisti non gli erigessero, nella Capitale, alcun monumento. Comunque non si sa dove sia stato sepolto, né sono mai stati rinvenuti i documenti relativi alle trattative internazionali che precedettero la riconsegna del corpo.
Quell’8 dicembre 2003, trascorsi centoquarantadue anni, l’Amministrazione Comunale di Sante Marie ed una Delegazione del borbonico “Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio” hanno voluto ricordare e celebrare, con l’apposizione di una lapide marmorea, José Borjés ed i valorosi a lui fedelmente legati fino alla morte.
Non tantissimo, ma sicuramente abbastanza, per rimuovere da quel Comandante l’immeritata patente di brigante e riscattarlo dalla vergogna di una fucilazione riservata agli abietti, restituendogli l’onore di combattente, quale egli fu, e riabilitandolo dinanzi alla storia, dalla cui memoria fu brutalmente cancellato.

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