Definizione di obesità e Obesity-survival paradox

“Patologia cronica multifattoriale caratterizzata dall’aumento della massa grassa a cui si associa un significativo aumento di morbilità (diabete mellito di tipo 2, malattie cardiovascolari, ipertensione arteriosa, patologie osteoarticolari ecc.) e mortalità” (http://www.treccani.it/enciclopedia/obesita/): ecco la puntuale definizione enciclopedica della Treccani. L’obesità, dunque, è una patologia che comporta un’eccedenza di lipidi nell’organismo con contraccolpi dannosi per la normale condizione fisica, talvolta letali. La “World Health Organization” di Ginevra, attraverso la disciplina della biometria, individua per ognuno il “Body Mass Index” che paragona i rapporti peso/altezza in base al genere e all’età del soggetto. Cardiopatie, malattie metaboliche tipo diabete mellito non insulino-dipendente, neoplasie, OSAS, artropatia degenerativa: sono solo alcune delle patologie conseguenti l’obesità, che talvolta, negli studi medici di coorte, è veicolare del venir meno delle funzioni vitali, anche se la stessa organizzazione elvetica la classifica come “morte evitabile”. La disfunzione si evolve e implica anche la sfera psichica. Esiste un legame tra obesità infantile e sovrappeso genitoriale dovuto da fattori di eredità biologica e dall’habitat: il rapporto sale del 40% se uno dei due genitori è obeso, soprattutto se lo è la madre, e raddoppia se la pinguedine è di entrambi. Il tessuto adiposo è formato da cellule adipocite che derivano dai lipoblasti; i lipociti sono di tipo bianco e bruno: il primo, l’“uniloculare”, ha una forma arrotondata e nel citoplasma si trova una stilla lipidica senza alcun rivestimento; il secondo, il “multiloculare”, ha forma di poligono e nel citoplasma si trovano diverse stille lipidiche. Le informazioni genetiche contengono dati significativi sugli adipociti riguardo quantità e dislocazione, ma tali elementi variano se il soggetto è affetto da polifagia e aumenta di peso: i lipociti si incrementano all’aumento ponderale, ma in caso di successivo calo del peso il loro numero resta elevato.
Un’incongruenza, un illogico, una bizzarria: gli effetti dell’obesità sono deleteri, ma in letteratura medica ci troviamo di fronte all’“Obesity-survival paradox”, al “paradosso dell’obesità”: alcuni studi hanno dimostrato che la percentuale dei decessi di persone in sovrappeso affette da particolari patologie è più bassa paragonata a soggetti normopeso con le medesime condizioni.
Tuttavia, un articolo di Tina Simoniello del 2018, titola “Smentito il ‘paradosso dell’obesità’, qualche chilo in più non allunga la vita” (Cfr. https://www.repubblica.it/salute/ricerca/2018/03/01/news/patologie_cardiovascolari_il_sovrappeso_non_allunga_la_vita_ma_gli_anni_di_malattia_si_-190103439/): la giornalista si rifà ad un’indagine data alle stampe per i tipi della rivista accademica JAMA Cardiology dell’American Medical Association. La ricerca scientifica della Northwestern University Feinberg School of Medicine della “Città del vento” dell’Illinois, ha dimostrato che all’eccesso ponderale è correlato ad un “aumento significativo del rischio di ammalarsi di patologie cardiovascolari [, e che] il sovrappeso ha una durata della vita simile a quella misurata nei normopeso” (Ibidem). La reporter cita nel suo articolo anche altre indagini, come quella resa nota dalla rivista britannica The Lancet, le cui conclusioni evidenziarono che il pericolo di morte è direttamente proporzionale con la pinguedine. L’eziologia ovviamente indica una concausa di effetti negativi dovuti a consumi calorici sovrabbondanti, sedentarietà e mancanza di attività motorie.

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