Sacharov sul Volga, Solženicyn nel Vermont (2a ed ultima parte)

Scacciato dalla Russia per decreto di un’autorità che non poteva più tollerarlo né imprigionarlo ancora, prima fronteggiò con asprezza e superbia le insidie pubblicitarie dei mass-media occidentali, inalberando la sua ideologia amoderna, amarxista, aliberale, russa indigena e arcaica, non meno di quella sua barba da profeta in battaglia, poi scomparve nelle campagne del Vermont (USA) e tacque. “Qui è troppo facile parlare, preferisco tacere”, disse da lì.
Dopo anni di silenzio e di severe osservazioni sul modo di vita occidentale, il dinosauro pensante, affiorato dalla steppa russa e traslocato in America, Aleksandr Isaevič Solženicyn, invece parlò e lo fece in un’occasione platealmente pubblica: “No, io non posso caldeggiare la vostra società come ideale per la trasformazione della nostra. La semplice enumerazione delle particolarità della vostra esistenza ci immerge nella più grande tristezza…”. Parole sprezzanti, ma dotate di una forza solenne di convinzione. Parole che, nel discorso tenuto presso l’Università di Harvard, l’8 giugno 1978, seguivano la descrizione dei vizi più diffusi in tutto l’Occidente, soprattutto in quell’occidente estremo che erano gli Stati Uniti e che, piccolo particolare, gli avevano concesso asilo politico.
Si scagliò con irruenza sull’indebolimento del carattere umano: “Un declino del coraggio civile così diffuso nella classe dirigente ed in quella intellettuale dominante, da suscitare l’impressione che il coraggio abbia disertato la società intera…”. Poi sulla profusione e l’ansia dei beni materiali: “E allora ditemi, in nome di che cosa certuni dovrebbero distogliersi da tutto ciò e rischiare le loro preziose vite per il bene comune…”. Non tralasciò le degenerazioni dei valori umani: “Dopo l’idea dell’uomo come centro di tutto ciò che esiste, vi è la pericolosa tendenza a prostrarsi dinnanzi all’uomo e ai suoi bisogni materiali”. Non tralasciò nemmeno gli abusi dei mezzi di informazione di massa: “La stampa è il luogo privilegiato di questa fretta e di questa superficialità, che sono la malattia mentale del XX Secolo”. Infine si indirizzò sull’arbitrio tendenzioso nella cultura: “L’Occidente, che non ha una censura, opera tuttavia una selezione ostinata, separando le idee alla moda da quelle che non lo sono e che, sebbene queste ultime non cadano sotto la mannaia di alcun divieto, non possono esprimersi veramente”.
Certamente le opere e la figura di Solženicyn, genio collerico russo, sono state fra le maggiori rivelazioni dei nostri tempi. Con la sua imponente rappresentazione del “Gulag” (ramo della polizia politica dell’URSS che costituì il sistema penale dei campi di lavoro forzato), scosse nell’intimo la cultura ideologica europea, più di Trockij e Chruščëv, sicuramente più di Orwell, di Koestler, di Camus, Satre e Merleau-Ponty. Ma sull’immoralità dell’Occidente, un “mondo in frantumi” giudicato da una collina del Vermont, come la società romana dall’isola dell’Apocalisse, che cosa c’era di vero?
Erano di fronte lo straordinario e l’ordinario. Il pianeta Russia aveva espresso per alcuni decenni un’”intelligencija” di eccezionale coraggio fra eccezionali tragedie. Anzi, di fronte alle collettività americane, nelle quali era facile ogni trasgressione o ribellione, non si potette non definire coraggio il suo ribellarsi a Stalin e alla NKVD, negli anni dello spietato “genocidio”. Ed anche al KGB di Šelepin e Andropov, ai manicomi speciali, alle iniezioni di aloperidolo e reserpina, così come resistere agli interrogatori e al lager, pensando a libri da voler scrivere. Di fronte alle società nelle quali esisteva una terroristica rivolta che sparava e uccideva, non è eccessivo definire coraggio anche quel fermento inerme che pensava e parlava. Dunque si può sicuramente affermare che sono sempre state le condizioni veramente tragiche a generare uomini capaci di affrontarle, divenendo, questi, giudici severi del proprio prossimo, smarrito tra fatalità e futilità.
Solženicyn descrisse con eloquenza le sconfitte degli americani e le loro illusioni per ingenuità o viltà retrattile. Eppure, tra bombe orbitali e satelliti nucleari, non sembrava edonistico il tener lontana una prospettiva di “guerre stellari”. Si deve aggiungere che i caratteri originari della nazione americana furono determinati da condizioni particolari, come l’assenza di reali nemici temibili e di gravi obblighi o rischi militari.
Bisogna dire che, comunque, il determinismo etico di Solženicyn raggiunse una parte di verità, ma cadde in alcuni equivoci anche sul tema dell’autorità dello Stato. “La concezione laica tollerante”, come ebbe ad osservare il filosofo francese Raymond Aron (1905-1983), “vieta allo Stato di imporre un sistema di valori e lascia le visioni del mondo alle scelte personali, alle forze sociali, alle culture ed alle fedi religiose della società pluralistica. Lo Stato, detto etico, secondo l’esperienza storica, non conviene a nessuno, nemmeno ai preti e tanto meno ai filosofi. Infatti l’imposizione di una visione del mondo è all’origine del totalitarismo”.
Ma senza quell’imposizione, si può dire che non esistono valori? Sono meno evidenti, poiché il pubblico esame delle questioni di Stato e di governo si concentrava ed ancora si concentra, sulle condizioni materiali del vivere e sulla ripartizione patrimoniale.
Nella Russia sovietica, dove la distribuzione delle risorse avveniva tramite “ukaz” (decreto, prima dello zar e successivamente del Soviet Supremo), quell’ansia non era certamente minore, anche se aveva per oggetto beni disponibili minori. Già l’analisi aristotelica prendeva atto che, se per i saggi la felicità era nella sapienza e per chi viveva di politica era negli onori, per il popolo, come ovvio, nel benessere materiale. Dal IV secolo avanti Cristo, nessuna chiesa, come nessuna rivoluzione, riuscì mai correggere quel primo dato sociologico.
Per tali questioni, Solženicyn riecheggiò i tradizionali appelli dei “ghandisti” alla limitazione dei desideri, che asserivano: “Vuoi la pace, come puoi crederla possibile se esiste solamente una continua competizione tra individuo e individuo, tra gruppo e gruppo, classe e classe, nazione e nazione?”. Il dissidente russo, a sua volta, ribadì: “L’autolimitazione liberamente accettata è una cosa che non si vede quasi mai. Tutti praticano l’autoespansione, fino a quando le intelaiature della legge cominciano a incrinarsi…”. Anche se quella americana aveva superato, nelle dilapidazioni, ogni esperienza storica, tutte le altre società avevano sempre inevitabilmente sprecato, per disparati motivi, alcune pulsioni rituali-esistenziali che sembravano insopprimibili, persino nella miseria. Si pensi che, in un rito tribale di competitiva distruzione dei beni, che i nativi americani “Kwakiutl” (stanziati nell’attuale Columbia Britannica, in Canada, la cui comunità nel 2016 contava 3665 individui) chiamano “potlatch”, dopo un banchetto a base di carne di foca o di salmone, vengono, ancora oggi, bruciati o gettati in mare beni primari come coperte, rami lavorati e, persino, le preziosissime canoe, al solo scopo di poter affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso lo abbiano perso. Esempio di una “economia del dono”.
Allora, Solženicyn aveva torto? Malgrado tutte le repliche possibili, è rimasto sempre il sospetto, per certi versi inquietante, che abbia avuto, al contrario, fondamentali ragioni. Come ammetteva lo stesso Robert Kennedy, “noi stessi non sappiamo mai che cosa abbiamo raggiunto e se ci piace. Inoltre i pessimisti hanno sempre ragione. Infine, si sa bene che ogni civiltà è mortale, proprio come ogni individuo è mortale”.
Aleksandr Isaevič non sbagliava, quindi, quando biasimava l’aspirazione a eludere la serietà dell’esistenza o accusava l’abnorme prolificazione di quei beni materiali che già Westbrook Pleger (1894-1969), giornalista e scrittore americano (famoso per la sua opposizione al New Deal e ai sindacati), definiva “una collezione di passatempi per gente immatura” o, ancora, deplorava gli abusi e le mode di cultura. Solženicyn vi aggiunse anche una tenace disapprovazione per le droghe, non solo chimiche ma pedagogiche. E presagì che, il giorno in cui le future generazioni californiane si sarebbero astenute o annientate dalle ultime teorie trasgressive e dalle ultime sostanze stupefacenti, in Russia, a seguito della “perestroika” e della “glasnost”, il vertice del peccato sarebbe stato la comparsa, all’Università di Rostov, sul Don, del primo “hashish” (lì definito la vodka dei ricchi), importato dal lontano Passo di Khyber, sulla frontiera tra Afghanistan e Pakistan.
Solo nell’anno 2000, malgrado la diffidenza con cui i suoi connazionali avevano sempre continuato a trattarlo, Solženicyn si riconciliò con il suo amato Paese, dal quale fu a lungo perseguitato come dissidente, ed incontrò il Presidente Vladimir Putin. Morì, a causa di una insufficienza cardiaca, all’età di 89 anni, la sera del 3 agosto 2008.
In conclusione, Sacharov e Solženicyn, vissero differentemente le loro battaglie, così come differentemente le avevano iniziate. Guardati solo con l’occhio della storia, accantonata ogni forma di personale ideologia, è corretto affermare che essi furono in egual misura, con il coraggio delle loro menti ed il coraggio delle loro azioni, i concreti promotori di quei cambiamenti epocali in una società, come quella russa, che per settant’anni era stata, consapevolmente, prigioniera di se stessa.

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