Il tatuatore di Auschwitz

Lale Solokov, che è morto all’età di novant’anni, era un uomo d’affari ebreo che sopravvisse ad Auschwitz, come tatuatore del campo. Lì incontrò Gita, con la quale passò il resto della sua vita, prima nella sua terra natale, la Cecoslovacchia e più tardi a Melbourne, in Australia.
Nato, nel 1916, con il nome di Ludwig “Lale” Eisenberg, fu educato e visse i primi anni della sua gioventù a Krompachy, in Cecoslovacchia. Aveva una naturale abilità con le lingue, abilità che sfruttò negli affari, a livello internazionale e che, soprattutto, gli salvò la vita. Parlava correttamente lo slovacco, il tedesco, il russo, il francese, l’ungherese ed un po’ di polacco.
Durante i primi mesi della Seconda Guerra Mondiale, mentre dirigeva un reparto vendite a Bratislava, venne a sapere che, quotidianamente, le famiglie ebraiche, a Krompachy, venivano prese e radunate in “campi di lavoro” della zona. Spaventato per la sua famiglia, decise di offrirsi alle autorità tedesche locali, proponendosi come persona più adatta al lavoro pesante, al posto dei suoi anziani genitori e pensando che questo avrebbe li avrebbe salvati. Il giorno che fu prelevato dalla sua casa, fu l’ultimo in cui vide, vivi, la madre ed il padre. Trasportato, nell’aprile del 1942, col primo viaggio di prigionieri ebrei, fu imprigionato ad Auschwitz-Birkenau e tatuato con il numero 32407. E questo numero sostituì il suo nome.
Assieme a tanti altri, fu assegnato alla costruzione di nuovi “blocchi”, per l’ingrandimento del campo. Lale trascorreva tutto il tempo del suo lavoro sui tetti, sotto il sole o la pioggia, studiando il comportamento, sempre uguale, delle guardie SS. Quasi subito, si ammalò di tifo, ma riuscì a guarire. Fu curato da un uomo, un docente universitario francese, conosciuto come Pepan, lo stesso che gli aveva tatuato sul braccio la sua nuova identità. Lo prese come suo assistente e gli insegnò, non soltanto il “mestiere”, ma anche come pensare e come tenere la bocca chiusa.
Poi, un giorno, Pepan sparì. Non seppe mai cosa accadde di lui. Lale divenne così, a pieno titolo, il tatuatore ufficiale e il detentore del registro dei reclusi. Ora lavorava ora per l’Ala Politica delle SS, la “Politische Abteilung”. Un Ufficiale ebbe il compito di controllarlo e questo gli diede una certo sentore di protezione. Come tatuatore, Lale lasciò il dormitorio comune e fu trasferito in un edificio dell’amministrazione del campo. Aveva razioni extra di cibo e dormiva in una stanza singola. Quando il suo lavoro finiva o non vi erano altri nuovi prigionieri, aveva del tempo libero per sé. Ed era già tantissimo.
Nel luglio 1942, mentre tatuava un gruppo di donne giunte al campo, operando a testa bassa, per non vedere un dolore così simile al suo, Lale alzò lo sguardo un solo istante ed incrociò gli occhi di Gita che, in quel mondo senza colori, nascondevano un intero arcobaleno. Gita, un nome che non potè più dimenticare. Perché lei era diventata, in quel momento, la luce in quel buio infinito. Si bloccò. Ricordò allora le parole di Pepan, che gli rammentavano che se si fosse rifiutato, sarebbe stato ucciso lui stesso. Ed allora tatuò sul braccio di Gisele (Gita) Fuhrmannova, il numero 34902. Con l’aiuto di un ufficiale delle SS, di nome Baretski, Lale e Gita incominciarono a scambiarsi delle lettere. La domenica, l’unico giorno in cui i prigionieri potevano avere un po’ di riposo, i due potevano incontrarsi furtivamente in un posto segreto, al di fuori dei blocchi. Erano quei piccoli momenti, rubati a quella assurda quotidianità ad avvicinarli, in un luogo dove non c’era posto per l’amore, dove si combatteva per un pezzo di pane e per salvare la propria vita. L’amore era un sogno ormai dimenticato; ma non per Lale e Gita, che erano pronti a tutto per nascondere e proteggere quello che avevano. Lale le portava un po’ del suo “cibo speciale”, che lei divideva con delle amiche, aiutando anche loro a sopravvivere.
In molte occasioni gli fu chiesto di affiancare il Dott. Mengele nella selezione dei prigionieri da inviare alle camere a gas. Il medico militare spesso gli diceva: “Tatuatore, un giorno prenderò anche te, un giorno!”. Con il denaro ed i gioielli affidatigli da alcuni prigionieri più ricchi, incominciò a mercanteggiare con gli abitanti locali, che lavoravano vicino al campo, per ottenere viveri e approvvigionamenti per coloro che ne avevano più bisogno. Qualche volta fu sospettato, interrogato e picchiato. Nel 1945, i nazisti incominciarono ad evacuare i prigionieri, prima dell’ormai sicuro arrivo dell’esercito russo. Gita fu una delle selezionate per lasciare Auschwitz. La donna che amava se ne era andata via e di lei conosceva solo il suo nome, non il luogo da cui proveniva. La ragazza aveva raccontato poco di sè, come se non essendoci un futuro, non avesse senso nemmeno il passato.
Due giorni prima dell’arrivo dei Russi, Lale fu trasferito al campo di Mauthausen. Riuscì a scappare subito, approfittando della distrazione delle guardie SS che puntavano la loro attenzione solo sull’imminente arrivo del nemico. Durante la fuga per raggiungere il suo paese, Krompachy, fu costretto ad attraversare a nuoto il Danubio, sotto il fuoco incrociato delle armi tedesche e russe. Doveva farcela. La sola cosa che gli interessava era scoprire che fine aveva fatto Gita. In cuor suo, la speranza di ritrovarla non era mai svanita. Anzi, col passare del tempo, cresceva la certezza che l’avrebbe rivista. Finita la guerra, si mise freneticamente alla ricerca della sua amata, chiedendo ai quei concittadini, sopravvissuti, eventuali informazioni su di lei. Poi, un giorno, mentre si trovava alla stazione ferroviaria, vide di fronte a sé un viso familiare e gli occhi lucenti di Gita. Lo aveva trovato lei, senza più morte e dolore intorno. Ora erano solo due giovani, con la loro voglia di stare insieme. Solo due giovani, che erano stati più forti della malvagità del mondo.
La coppia si sposò nel 1945, cambiando il cognome in Solokov, per adattarsi meglio alla Cecoslovacchia controllata dai sovietici. Lale aprì, con successo, un negozio di tessuti a Bratislava. Quando i comunisti nazionalizzarono tutte le attività private, gli confiscarono il negozio e lo arrestarono, perchè sospettato di inviare del denaro all’allora nascente stato di Israele. Grazie ad alcune conoscenze in tribunale, fu scarcerato, ma dovette, con Gita, lasciare immediatamente la Cecoslovacchia. Si trasferirono prima a Vienna, poi a Parigi ed, infine, viaggiarono alla volta dell’Australia, dove giunsero nel 1948, stabilendosi a Melbourne. Avviò anche lì un’attività tessile e Gita incominciò a disegnare i modelli per gli abiti. Nel 1961 ebbero un figlio, Gary. Vissero il resto della loro vita a Melbourne. Gita visitò l’Europa, alcune volte, prima di morire nel 2003; Lale, dal canto suo, non lo fece mai. Lale Solokov visse, per più di cinquant’anni, con questo segreto, testimone del peggiore crimine mai compiuto da degli uomini verso i propri simili. Solo gli amici più stretti seppero della loro storia d’amore. Gary stesso, fino all’età adulta, non conobbe mai la realtà degli orrori ai quali i suoi genitori dovettero assistere, durante una giovinezza che fu loro bruciata. La piena verità venne alla luce solo dopo la scomparsa di Gita. Nell’immediato dopoguerra, molti pensavano che i prigionieri che avevano lavorato per le SS nei campi di sterminio, avevano comunque partecipato alle loro brutalità. In tutti quegli anni, Lale comunque non vide mai se stesso come un collaboratore dei nazisti. Quello che aveva fatto, lo aveva fatto solo per sopravvivere e, nonostante i suoi privilegi, la paura di non affacciarsi ad un nuovo giorno, era stata sempre viva nella sua mente, in quegli anni di lager.
“Questa storia aiuta le giovani generazioni, che non hanno vissuto quel tipo di crudeltà, a stringere legami con la storia. Umanizzando anche la persona incaricata di infliggere un orrendo degrado fisico”, conclude Cedric Geffen, Presidente del Memoriale dell’Olocausto australiano.

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