Teano “Il mio viaggio” di Pasquale Mesolella

Pasquale Mesolella ha pubblicato un nuovo libro: “Il mio viaggio”, edizioni Pentalinea di Prato. Un libro che ci piace perché parla di Teano e dell’avventura della vita. Quando presentai le sue storie di Teano, “Cose della mia Terra”, pubblicate da Bastogi nel marzo 2006, dissi che uno dei meriti di Pasquale era quello di aver raccolto le “sue fronde sparse”, prima che soffiasse il vento. Raccolse infatti racconti e poesie, piccoli frammenti di sapienza che sarebbero scomparsi, entro pochi anni, alla morte dei suoi cari più anziani. Quando introdussi le sue “Trasmigrazioni” poetiche, invece, parlai di trasmigrazione del senso, della necessità che ha l’autore di trovare un senso alle emozioni della propria esistenza. Come spesso accade anche in altre opere dell’autore, come in “Testamento Breve” edito nel 2007, si crea in lui un’interazione tra la “scena interiore e quella esteriore”, due realtà che si avvicinano e si sfiorano ma che sono divise da una cortina invisibile. A volte addirittura si scontrano. E’ proprio in “Testamento breve” che Pasquale annuncia il suo “viaggio”. Scrive: “Per questo breve viaggio nel sotterraneo della coscienza/ macigni insormontabili di sofferenza lasciammo./ E sul lungo treno delle precarietà/ fuggiaschi partimmo nella notte/ come ladri… Questo è il viaggio sconosciuto del luogo inesplorato/ dove il pedaggio si paga/ per il solo biglietto di andata…”. Il treno, il tema del viaggio, ritorna in questo nuovo libro dove Pasquale annota: “come in un treno affollato di passeggeri sconvolti, come in un fiume tumultuoso e in piena… mi sono raffigurato il mio lungo e breve viaggio, il viaggio della vita che è un pò anche il vostro. Un viaggio diretto verso una penisola ignota”. Come nel “testamento”, anche qui si avverte la sensazione di raccogliere ancora una volta le fronde sparte, i ricordi, le emozioni, per confessarle ai compagni di viaggio, prima di arrivare chissà dove. Magari per cercare qualche certezza ora che l’età volge al tramonto e nasce il desiderio di espiazione e di speranza. Perché scrive Pasquale: “Con l’aiuto di Dio/ non esiste disperazione..”:
Anche i morti, per Pasquale, pregano e chiedono: “Veniteci a trovare”: perché vogliono un po’ di compagnia e sono ancora pieni di spine”, in attesa della Resurrezione. La parola arriva alla fine del libro, nella poesia “Un crisantemo d’amore”, dove si legge:“Disperderò tutto/ il profumo del mio spirito/ affinché tu possa sentirlo/ anche dopo la nostra resurrezione”:
Pasquale si pone nelle vesti di un poeta – viaggiatore e di un poeta in esilio: un esilio dallo spazio (dalla città dell’infanzia e della giovinezza), dal tempo passato (dalla madre, dagli amici, dal gioco, dagli amori giovanili), da Dio e in esilio dalla vita che non offre più appigli sicuri di fronte alla morte. Pasquale cerca, attraverso i suoi scritti, le sue poesie, di prepararsi alla partenza, di salutare gli amici, di congedarsi dai luoghi cari alla memoria (Teano, Suio, Prato) e dalle persone amate (la madre, il figlio, la sorella, la moglie). Chi sta per partire, infatti, non può fare a meno di salutare i vicini, per sciogliere la tensione della partenza, l’ansia e la paura dell’imprevisto che assalgono anche il viaggiatore più esperto, nel momento di mettersi in cammino. Come il viaggiatore “cerimonioso” del Caproni, Pasquale dilata oltre ogni ragionevole misura il cerimoniale dei saluti, dei ricordi, delle scuse, degli addii, dei ringraziamenti. Un atteggiamento “ossequioso” che si chiude alla fine del libro, con l’ultimo, drammatico, addio: il poeta è giunto alla disperazione calma, senza sgomento, nella più serena tranquillità . Il rito del congedo è un’accettazione lucida e rassegnata dell’ineluttabilità del nostro destino. Ma da chi e da quali luoghi si conceda il poeta? E verso quale destinazione si dirige? Per Pasquale congedarsi significa innanzitutto dire addio ai luoghi dell’infanzia e della giovinezza, dimenticarli. Dire addio all’amata Teano, città fisica e ideale al tempo stesso, amata più di tutte le altre città, più di Prato la città della maturità. Anche Pasquale conclude il suo libro con un congedo. Ora che si sente più colomba e meno orso, ora che sente più luce e meno buio, ora che è meno pedante e più leggero, scrive :”Lasciatemi andare che ho perso perfino il ricordo della partenza/ in questo desiderato approdo/ da dove non credo far ritorno”.
A 18 anni Pasquale va a lavorare a Prato che diventa la sua nuova citta, ma Teano resta il luogo della memoria, delle emozioni, della nostalgia, dei rimpianti. A Teano ritorna d’estate e si ferma ad osservare la natura che vive, in cerca di felicità con il cuore che soffre di solitudine e di abbandono. Una felicità che rivive nell’osservare lo spettacolo della natura, ma anche nel trascorrere momenti di felicità con il figlio Luca, con il vecchio amico Gino. La dichiarazione d’amore è per Teano. Scrive: ”Amo Teano, questo mio paese seviziato, maltrattato, distrutto e abbandonato. Lo amo con un amore puro e sincero, fervido e schietto, che va oltre ogni senso egoistico e materiale, oltre ogni bisogno ed interesse personale”.
Il libro racchiude anche il lamento del poeta di fronte alla morte, la difficoltà di dare un senso alla sua vita e alla morte, per “noi uomini solitari e senza un Dio”. Condanna la bruttura e la cattiveria dell’uomo, l’ipocrisia dei Premi letterari, la vanità della politica, il festival di Sanremo, la falsa morale, la pubblicità, l’omologazione, la cattiveria, la Terra Felix lasciata nell’immondizia. Oggi anche Teano è cambiata e lui vi torna con la morte nel cuore: è diventata ”Un paese vile e selvaggio dove dilagano il menefreghismo, l’invidia e l’inciucio”. Dove il campanile del convento di S. Antonio ogni ora è costretto” a guardare/ l’insolente e persistente / malvagità della gente”. Ma a Teano rivivono anche momenti di tenerezza: come quando si sdraia tra le spighe e i papaveri davanti alla chiesetta della carità o vede i piccoli innamorati del paese. Anche Pasquale, come il Caproni, invita ad attraversare il mondo senza dare fastidio. Scrive : Come un soldato valoroso e mite, senza dare fastidio, sei passato a conversare…” Bisognerebbe sempre perdonare, come fa Mario Calabresi. E’ inutile tanta cattiveria se poi si muore; non ha senso dibattersi in politica su fronti contrapposti di destra e di sinistra, bisogna ritornare al passato quando ci si voleva veramente bene. Bisogna ritornare al mondo dell’infanzia: Scrive: “Amo ancora divertirmi coi pastori e con l’albero di Natale.”, Amo la serena e povera fanciullezza trascorsa tra semplici giochi e la miseria, amo “le frasi spezzate dei racconti oscuri e sconclusionati di mia madre”.
Anche la seconda parte del libro, quella poetica, è un alternarsi di presente e passato, di ricordi e di emozioni . Il presente è il momento più doloroso della vita, come il buio della notte, dove una marea di disperati parte e non arriva a destinazione: resta affondata nel mare o vive un’esistenza di tristezza e di solitudine.

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