L’inquinamento da plastica stabilmente nella catena alimentare umana

La azioni che svolgiamo quotidianamente, tanto a lavoro quanto nel tempo libero, sono da tempo strettamente legate al crescente uso delle nuove tecnologie. Se già da decenni, ad esempio, si usano robot per la produzione di autovetture e componentistica elettronica, con crescente impatto sui livelli occupazionali dei colleghi “umani”, dobbiamo ricordare che con l’ingresso dei prodotti in plastica nei circuiti commerciali mondiali, stabilizzati con i brevetti della Bakelite nel 1910, del famoso PVC nel 1912 e dell’ancor più noto Cellophane nel 1913, le abitudini delle persone sono state profondamente stravolte da una nuova ma altamente inquinante materia prima. Buona parte delle cose che ci circondano, oggi, contengono o sono interamente costruite in plastica, con il tremendo risultato, secondo numerosi studi scientifici, di arrecare grave danno all’ambiente. Gli allarmi si accavallano e moltiplicano da anni e c’è poco da stare sereni se, grazie anche a report giornalistici e piattaforme social, abbiamo tutti appurato la presenza di una vera e propria isola fatta di rifiuti di plastica nella porzione di Pacifico tra le Hawaii e la California. Una massa di oltre 80.000 tonnellate di giocattoli, bicchieri, bottiglie e tante altre nefandezze plastiche che sta mettendo a rischio l’intero ecosistema mondiale. I pesci, come pure le tartarughe, che oramai sono una vera e propria sentinella del problema, ingeriscono di continuo non solo elementi grossolani di questi rifiuti, ma, purtroppo, anche un più subdolo microparticolato proveniente dalla decomposizione, per quanto lenta, dei rifiuti presenti nei mari oramai da oltre 50 anni. Questo particolato, talmente fine da poter essere accostato al pm10 che tanto spaventa le amministrazioni europee e fa chiudere interi centri urbani alla circolazione automobilistica, è oramai penetrato nella catena alimentare generale fino ad arrivare nel piatto di casa nostra. Come accertato da numerosi studi internazionali, pubblicati negli ultimi anni per provare a svegliare la coscienza mondiale, pesci e animali di terra stanno assorbendo massivamente queste microparticelle plastiche e le riversano quotidianamente nel nostro organismo durante il consumo degli alimenti. Le conseguenze di un tale inquinamento sono palesi. Ingerire plastica, soprattutto se a livello talmente microscopico da finire nelle “carni che consumiamo”, porta solo nella direzione di un ulteriore aumento delle patologie tumorali umane. Ma ciò che è peggio, anche perché poco chiaro ai cittadini, è la presenza di questo insidioso inquinamento anche nell’acqua “potabile” e addirittura in uno degli elementi più usati nelle nostre cucine: il sale! Si avete capito benissimo, oramai queste microparticelle di plastica sono percentualmente presenti anche nel sale marino e nelle fonti d’acqua dolce che ci arrivano poi direttamente a casa. L’ultimo studio in tal senso, realizzato dalle Università di New York e del Minnesota, anticipato sul famoso giornale statunitense The Guardian, ha accertato la presenza di plastica nel sale, nella birra e nell’acqua potabile, rilevando pure che ogni cittadino americano ingerisce mediamente 660 particelle di plastica ogni anno. Sherri Mason, a capo di questa ricerca, ha pure precisato, giusto per farci stare meno tranquilli, che la plastica è “onnipresente, nell’aria, nell’acqua, nei pesci che mangiamo, nella birra che beviamo. È ovunque”, come confermato anche da un ulteriore studio molto più vicino a noi, in Spagna. Ma già nel 2015 in Cina, super potenza della produzione di massa e dei prodotti a buon mercato che quasi sempre sono composti da derivati della plastica, le microplastiche con diametro o lunghezza inferiore ai 5 millimetri erano state identificate chiaramente nel sale venduto nei supermercati. Come dire, il dato oramai è certo e gli esseri umani da tempo ingeriscono microparticelle di plastica come parte della propria alimentazione quotidiana. Diverse iniziative percorrono l’Europa ed il resto del mondo, tra cui non ultima la messa al bando dei sacchetti della spesa, talmente inquinanti da essere sistematicamente trovati nello stomaco di tanti mammiferi marini, ma il vero impegno deve essere cambiare mentalità e cedere un po’ della nostra comoda vita tecnologica per salvaguardare non interessi terzi, bensì la nostra stessa salute. Pensiamoci quando critichiamo i governati nazionali o sovranazionali, la fatidica matrigna Europa, semplicemente perché hanno tentato di limitare i danni con una normativa più restrittiva. Ricordiamocelo soprattutto quando guardandoci intorno solitamente usiamo una tremenda e giustificante frase: “è la malattia del secolo”. Quella malattia non è solo figlia di criminalità organizzata e speculazione industriale, piuttosto è figlia anche e soprattutto dei nostri comportamenti quotidiani. A tutti l’augurio di non vivere mai tragedie del genere. Ve lo dice uno che ne ha appena vissuta un’altra in famiglia. Salvare l’ambiente non è un capriccio radical chic, come si usa dire oggi per autoassolversi, è semplicemente curare se stessi e i nostri figli. Meditate gente… meditate…

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