Quando gli orti erano…. un’affare di Stato

Nel mondo globalizzato del nuovo millennio, si sa, lo spazio verde in città è sempre più spesso un utopico sogno da postare in rete, magari con commenti ecosostenibili e narcisistiche promesse sui social. Eppur si muove qualcosa, direbbe qualcuno, soprattutto se pensiamo alle stupende trovate, ad esempio, delle “Vertical Farm”, o dei pezzetti di terra riconquistati centimetro dopo centimetro ed affidati ad anziani e gruppi di volontariato. Si, degli orticelli veramente simpatici, maniacalmente curati, che spesso nei piccoli centri fanno bella mostra di sé, e mi ricordano tremendamente un periodo della nostra storia durante il quale l’orticello era un vero affare di Stato! Eh si, avete capito bene, perché prima della seconda grande guerra, in pieno periodo fascista, la “Patria” combatteva l’epica “battaglia del grano”, cercando di perseguire un’irrealizzabile autosufficienza nella produzione del frumento per dare il “pane alla Patria”.
Le belle città italiane, vanto di Roma, del Rinascimento e dell’agognata unità d’Italia, si trasformarono di colpo in un paesaggio campestre disturbato addirittura da binari, monumenti, chiese, e forse anche dai cittadini curiosi! La radio gridava “Non un solo lembo di terra incolta”, e le città si trasformavano nel tentativo patriottico di farcela da soli a vivere, combattere e morire! A Torino, una delle prime volenterose città aderenti al progetto, il Parco del Valentino divenne un campo di patate, e a Piazza Castello si coltivavano girasoli in tutte le aiuole. Da notare che il progetto voleva dare il pane alla Patria, ma anche tirar via patate e girasoli non era male, e se per il regime fascista tutto rispondeva al piano di autosufficienza nazionale, per molti italiani era pure una buona occasione per mangiare qualcosa in un periodo di ristrettezze.
Piazza Duomo a Milano era tutto un fiorir di grano, e sono davvero curiose le immagini della mietitura con l’imponente e bel duomo ambrosiano sullo sfondo, che oggi qualcuno potrebbe addirittura credere “photoshoppate”. E poi vogliamo mettere un bel campo di grano in Piazza della Scala?
Ma scendiamo lungo lo stivale e arriviamo a Roma, la città eterna, la caput mundi che diventò caput triticum con orti di guerra in Via dei Fori Imperiali, davanti l’Altare della Patria, a San Giovanni e a Villa Borghese, e perfino a Castel Sant’Angelo ! Una città trasformata, mutata, trebbiata, e celebrata da tutti i facoltosi politici italiani, forse più attenti alla pancia che ai fantastici pezzi di storia nascosti da spighe e vanghe. Ma si sa, in caso di guerra non si mangiano le pietre, seppur millenarie, e in qualche modo bisogna pur sopravvivere.
Ancor più giù, dove “a maronn c’accumpagn” aiuta quasi come un piatto di pasta a tavola, la bella Napoli partecipava all’onore della Patria a colpi di orti nella Reggia, davanti il Maschio Angioino, alle Triennale d’Oltremare, alle Terme di Agnano, e addirittura lungo l’asse stradale Napoli-Pompei. Il Mattino del 2 giugno ’43, glorificando il propagandistico costume degli orti di guerra nella città di Pulcinella, faceva notare la bellezza di questo «…lembo di vita rurale […] nel cuore della nostra città…».
Un vero affare di stato, una pratica spesso necessaria per sopravvivere, e in genere, direi, un’esperienza che oggi fa strabuzzare gli occhi dei nostri nonni, quando da contadini provetti tiraron su patate, girasoli e grano in posti impossibili, mentre oggi son costretti ad ascoltare nipoti che parlano di vertical farm, orto sociale o idee green sul balcone di casa.
Signori, coltivare un’orto, qualche anno addietro, era cosa seria… di Stato appunto!

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