“La rivincita di Capablanca”, una vita per gli scacchi

Fabio Stassi scrive sui treni che quotidianamente frequenta, astraendosi dal presente e componendo storie. “La rivincita di Capablanca” è stato scritto sulla linea Viterbo – Orte – Roma, come da lui stesso specificato in chiusura di romanzo. Dominano gli scacchi, non come una forma qualsiasi di ossessione, ma in quanto ossessione singolativa e onnivora per Josè Capablanca. Sessantaquattro sezioni di racconto, tante quante le case di una scacchiera, e non tanto concise per non ricostruirvi tutti gli aspetti umorali e riflessivi di un’autentica sfida di scacchi. Stassi riversa nei sessantaquattro riquadri una tempesta di flashback e di ritorni al presente (un back & forward continuo) a struttura circolare, perché decide di raccontare nelle prime frasi l’epilogo della storia-partita; tuttavia, come gli verrà da scrivere più avanti, negli scacchi si decide tutto alla fine, si impara dal finale, e dunque è il finale a ripercorrere tutte le mosse sferrate e a fornire una ricomposizione dell’intero. Capablanca parte da Cuba, da Rio Preto, affrontando i primi avversari del circolo locale e dalla prima adolescenza fa terra bruciata dei rivali; al Manhattan Chess Club lo accolgono come divinità, diviene campione del mondo dal prestigio quasi inarrivabile, se non fosse per lo spettro diffidente e in penombra di Aleksandr Aljekin, l’altro fuoriclasse planetario, la figura imperscrutabile che tormenta il cubano, colui che Capablanca starà una vita ad attendere per la sfida finale, anche quando il campione del mondo è un insignificante ed effimero statunitense. E, a frapporsi, una procrastinazione (termine caro anche al lessico dell’autore), un rinvio coatto che dura una vita: la malattia, la Seconda Guerra Mondiale con la deriva storico-civile dei continenti. Tutto, nell’immaginazione di Capablanca, si plasma in forma di scacchiera, e in pedoni, regina e re, torri e tattiche e fronti di attacco ingannevoli; fin da quando la madre, esasperata dall’unico interesse del figlio, fu costretta a privarlo prima di un pezzo, poi di un secondo, fino a lasciare per punizione un solo pezzo degli scacchi. Eppure la punizione divenne sfida con la madre vinta da Capablanca, che continuò a giocare le proprie partite con la semplice forza visiva, senza più un solo pezzo reale sulla scacchiera. Quando le frequenti fitte alla testa durante gli incontri chiariranno al cubano che sarà un aneurisma cerebrale a portarlo via, la preparazione dell’affronto finale al russo (con il quale farà a gara anche su chi per primo si addentri tra le lenzuola di una nobile) passerà al piccolo Xavier. Succede prima che il campione e la moglie Olga lascino Lisbona dopo un torneo terminato in disfatta. Lì Capablanca sfodererà l’ultima, sorprendente mossa, anticipandola nei tempi, come una propaggine bianco-nera issata contro la storia e la malattia, contro le loro ostruzioni all’agognato incontro con Aljekin.  

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