Pirandello, la scrittura nella “stanza della tortura”

All’inizio del terzo atto di Sei personaggi in cerca d’autore, il Padre-personaggio osserva pallido gli Attori della compagnia, recitando: “Signori […], quella che loro è un’illusione da creare, per noi è invece l’unica nostra realtà”, e proseguendo, dirà al Capocomico: “Ma non soltanto per noi, badi. […] Mi sa dire chi è lei?”. Si tratta di uno degli enunciati-manifesto della riflessione pirandelliana, tale come è, lucida e spietata, indagatrice; l’asse portante del suo pensiero splende nel riconoscimento dell’identità improbabilmente “unica”. I “Sei personaggi”, scritti nel 1920, spianavano la traccia ad “Uno, nessuno e centomila”, dimostrando quanto profondo fosse per Pirandello il dovere di analisi sull’io, specialmente inteso come io socializzante; le parole del Padre non sono occasione aleatoria di rivendicazione nei confronti degli Attori, essendo anzi tutta l’opera intelaiata su tale motivo, sin da quando, poco dopo l’avvio, i Personaggi avanzano verso la scena, dalla penombra del fondo sala. Tanti tratti del corteggiamento tra la compagnia e i Personaggi affilano il tormento sull’opinabile illusione circa il soggetto reale, indiscutibile, uno e compatto. L’affronto si cimenta al meglio allorché il Padre osserva che “lor signori Attori” potranno essere senz’altro più reali di una serie di Personaggi prima creati, poi accantonati dal proprio autore, ma non più veri di loro; la vita dei primi è passibile di variabili continue, l’esistenza teatrale dei secondi (forse che non sia tale anche quella di ogni individuo reale?) è fissata una volta per tutte, certo senza beneficio di reversibilità, ma forse con un maggiore calore di verità, di acquisizione identitaria. E il dramma dei Personaggi, così complessi e radicati in sé, aumenta con il constatare come gli Attori possano solo imitare, dare un’illusione approssimativa della vera personalità delle creature teatrali, come spiega appunto il Padre: “Ammiro, signore, ammiro i suoi attori […], ma, certamente…, ecco, non sono noi… Una cosa, che… diventa di loro; e non più nostra”. È questo il vortice reale e fallace, sempre scardinabile, costruito e sempre destrutturato da Pirandello. Così la sua scrittura si trasforma nella tanto celebrata “stanza della tortura”, che con disperazione non risolve; non risolve perché gira in tondo, produce e rilegge l’assurdità della vita, e come lei neanche la vita risolve, si impantana nella propria inettitudine di approdare ad una verità. Vita e letteratura si incontrano lì, nel vuoto e nell’assenza di un fondo di verità attendibile, lì fraternizzano. Tutto è scena, giù da un palcoscenico; ognuno è maschera, ma spesso recita in modo più scarso di sei, veri, personaggi pirandelliani.

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