Da “mangiafoglie” a “mangiamaccheroni”

Un tempo i napoletani erano detti mangiafoglie, perché la tavola privilegiava piatti di verdure, l’ingrediente principale della cucina locale. Le difficoltà di approvvigionare di frutta e verdura una città in continua espansione determinarono nel ‘700 la comparsa massiccia dei maccheroni nella cucina napoletana, anche se l’utilizzo della pasta essiccata era già nota da tempo. Riservati in un primo momento solo alle tavole dei ricchi, con l’invenzione del torchio per la trafila della pasta, lo nciegno, i maccheroni si diffusero tra il popolo. Fu solo allora che i napoletani divennero dei mangiamaccheroni, perché rispetto alle “foglie” i maccheroni abbottano la panza, come scrive G.C.Cortese nel Viaggio del Parnaso. Una storiella intitolata “Il segreto del mago” riportata da Matilde Serao nel volume “Leggende napoletane” ci conduce nel cuore del centro storico in via dei Cortellari nel Sedile di Portanova, dove vi era l’abitazione alquanto malfamata di un mago chiamato Chico che se ne stava chiuso in casa, con le finestre sempre serrate e lo sguardo fisso sui libri, senza farsi notare di giorno o almeno usciva molto raramente per comprare al mercato le erbe impiegate per le sue formule magiche. Accanto a lui viveva una donna “maliziosa, astuta e linguacciuta”, Jovanella di Canzio, che spiava il mago per scoprirne i segreti. Fu in questo modo che ella, dopo aver a lungo indagato, scoprì lo stregone intento a preparare una nuova pietanza. Espropriò, dunque, il mago della sua gustosa invenzione, di seguito presentata come propria al cuoco della corte di Federico II di Svevia. Prima dei napoletani, però, erano stati dei formidabili mangiatori di pasta i siciliani, come testimonia la vita del beato Guglielmo Eremita al quale, invitato a pranzo nella casa di un signorotto siciliano, fu servito un piatto di maccarones ripieni di fango anziché di ricotta per beffarsene. Nel momento in cui, però, il beato cominciò a mangiare il fango si tramutò in ricotta. Grazie a questa testimonianza agiografica sappiamo che prima del 1247, anno della morte di Guglielmo, i maccheroni erano già noti sull’isola. Un’altra versione vuole che il termine sia stato impiegato già nel 1279 dal notaio genovese Ugolino Scarpa che indicava tra i beni lasciati in eredità dal suo cliente Ponzio Bastone “una bariscella plena de macaronis” indicando una sorta di gnocchetti di semola. Altri sostengono che essi siano stati portati dalla Cina da Marco Polo tornato a Venezia nel 1292. Etimologicamente il termine avrebbe una duplice origine rispettivamente dal greco bizantino “makaronia” ossia canto funebre, ad indicare il pasto del funerale e, dunque, la pietanza da servire durante le esequie o dal greco “macharia”, cioè la zuppa d’orzo a cui sarebbe stato aggiunto il suffisso –one. I maccheroni sono stati anche protagonisti di sonetti, poemetti e numerosi testi burleschi e giocosi. Da uno di questi, “Le laude de li maccarune” di un certo Sgruttendio, riprendiamo una golosa celebrazione con la quale si vuole concludere: “Sangue mio, / grande brama, / arcipatroni di questa mia vita, / io anelo, / io svengo dal desiderio/ di assaggiarvi, maccheroni!/ Se vi trovo/ se vi provo/ che gran piacere ne traggo! / Se vi inghiotto/ mi gonfio di voi/ e mi sciolgo per la dolcezza”.

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