L’evoluzione del principio di legalità nella giurisprudenza costituzionale

Nel secolo scorso, a partire dalla fine anni cinquanta fino agli albori del nuovo secolo, la Corte costituzionale ha considerato il principio di legalità secondo logiche distinte, a seconda che esso venga invocato come strumento di garanzia del cittadino, o invece, come criterio informatore dei rapporti fra lo Stato e le autonomie regionali.
Quando il principio è stato invocato come strumento di garanzia del cittadino, la Suprema Corte, in molte pronunce, ha accolto un’accezione ‘formale’ del principio di legalità.
Al riguardo, infatti, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 34 del 1986, ha ritenuto come «necessario e sufficiente», nell’ambito delle prestazioni imposte, «la disposizione legislativa che si risolva in un’attribuzione del potere senza particolari connotazioni, purché l’atto dell’Amministrazione non possa trasmodare in arbitrio».
Quando invece, il principio viene invocato come criterio informatore dei rapporti fra lo Stato e le autonomie regionali, la Suprema Corte, ha accolto, in tante pronunce, un’accezione ‘sostanziale’ del principio di legalità rispetto al potere di indirizzo e coordinamento del Governo, inaugurando questo orientamento giurisprudenziale con la sentenza n. 35 del 1961.
In questa sentenza, la Corte ritenne che: «non basta, dunque, che la legge determini genericamente i fini che con i detti programmi si vogliono raggiungere. Occorre la specificazione dei fini, la precisazione dei criteri da seguire per il raggiungimento di questi fini, l’indicazione dei mezzi, la determinazione degli organi che sono chiamati ad attuare i programmi o che sono stabiliti per esercitare i controlli. Non basta, quindi, attribuire un potere in vista del raggiungimento dei fini, ma bisogna anche stabilire i limiti e l’estensione del potere e prevedere gli effetti che con gli atti, derivanti da tal potere, si producono. In concreto, talvolta, la legge stessa, attraverso le sue disposizioni, determinerà, col programma, le finalità, fisserà i criteri di attuazione, gli organi, i poteri e le limitazioni dei poteri degli organi, l’estensione della libertà che pur bisogna lasciare agli operatori ed ogni altra particolarità atta a meglio disciplinare il programma; altra volta sarà più opportuno che la legge approvi semplicemente un programma o piano, separatamente formato nei suoi particolari, ma discusso con la legge stessa e allegato alla medesima, e quindi, di essa facente parte integrante, salvo a modificare, con legge, questa legge di approvazione o il piano allegato soltanto quando circostanze di tempo o mutazioni economiche lo richiederanno. L’organo legislativo è in ciò sovrano e, a seconda dei casi, presceglierà forma e sostanza, salvi però sempre i dettami della Carta Costituzionale».
Insomma, con la sentenza n. 35 del 1961, la Consulta esclude che sia sufficiente la legalità formale, cioè l’attribuzione di un potere in vista di fini determinati; perché, per conseguire la legalità sostanziale è necessario stabilire limiti ed estensione di tale potere.
A distanza di tempo, esaminando il ricorso proposto da una serie di Regioni contro un atto statale di indirizzo e coordinamento delle funzioni regionali in materia di credito artigiano, la Corte costituzionale, con sentenza n. 150 del 1982, conferma – in riferimento al tema degli atti governativi di indirizzo e coordinamento, e in particolare, relativamente alle condizioni che ne legittimano l’esercizio, rendendo tali atti vincolanti per gli organi delle Regioni, anche in materie ad esse trasferite e già disciplinate da leggi regionali contrastanti con quanto disposto dall’atto d’indirizzo – il principio di legalità nella sua accezione più intensa.
Con tale sentenza, ricostruita la ratio della funzione di indirizzo e coordinamento, e identificata la stessa nella necessità di «comporre, in conformità del disegno costituzionale del decentramento, le istanze dell’autonomia con le esigenze unitarie», la Corte è chiamata ad enunciare «un criterio grazie al quale l’esercizio in via amministrativa del potere statale di indirizzo e coordinamento possa essere delimitato nei suoi legittimi confini». Tale criterio viene identificato nel principio di legalità sostanziale, il rispetto del quale richiede che il legislatore statale, individuate le esigenze unitarie che giustificano il ricorso alla funzione oggetto, emani le norme volte a perseguirle o quanto meno stabilisca i criteri in base ai quali gli atti di indirizzo e coordinamento devono essere posti in essere dai competenti organi governativi. In termini chiari e netti la Corte costituzionale sostiene che «perché il principio di legalità venga salvaguardato occorre un’ulteriore disposizione legislativa: la quale, in apposita considerazione della materia, che volta a volta esige l’intervento degli organi centrali, vincoli e diriga la scelta del Governo, prima che questo possa, dal canto suo, indirizzare e coordinare lo svolgimento di poteri di autonomia».
A seguito della sentenza n. 150/1982 e fino al primo decennio del nuovo millennio, il principio di legalità sostanziale, in riferimento all’amministrazione, ha operato, nella giurisprudenza costituzionale pressoché costantemente, quale parametro di legittimità per gli atti statali di indirizzo e coordinamento, e numerose sono state le decisioni che hanno contribuito a delinearne e specificarne il contenuto.
Negli anni più vicini, i riferimenti all’accezione sostanziale del principio di legalità, da parte della Corte costituzionale, si sono fatti più frequenti; e nella sentenza n. 32 del 2009 si rinviene una chiara esplicitazione del principio, che la Corte considera «soddisfatto ogni qual volta si rinvenga l’esistenza di criteri, nel testo normativo, in grado di orientare l’azione dell’autorità amministrativa».

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