Più grande di Napoleone

Con il fallimento si arriva alla fama. Tale sembra essere il verdetto che proviene dal giudizio dei posteri, sulle grandi figure del mondo. Il bagliore di un meteorite ha, da sempre, impressionato molto più del remoto splendore di una stella, immobile nel cielo. Un esempio, questo, che trova ampia conferma nella realtà. Napoleone e Lee sono gli eroi di centinaia di drammi e di romanzi, mentre Wellington e Grant quasi del tutto dimenticati, soprattutto da scrittori di quelle stesse nazioni che, con ogni sorta di pericoli, essi seppero portare in porto, intatte e vittoriose. Lincoln non è caduto nell’oblio per la pallottola di un assassino e, tanto meno Nelson, per la sua morte nell’ora della vittoria. Emozionanti tragedie che li salvarono dal decadere, cosa che probabilmente sarebbe avvenuta se la loro esistenza fosse terminata pacificamente e nel successo. Così, ad esempio, a poco più di un secolo dalla fine della Grande Guerra, il nome di Ludendorff è annoverato come il suo simbolico eroe, quello di Foch, gradualmente sgretolato nel ricordo. Tendenza della natura umana, esaltare la figura dello sconfitto. E tutto ciò, beninteso, in ogni ambito, non solo in quello militare. Sembra un uso corrente, il gettare sulle spalle del moderno giornalismo la colpa di tutto questo strano ed irragionevole modo di rievocare i grandi uomini, senza tralasciare che la storia dell’antichità costituisce una conferma della moderna.
Accadde anche a Scipione Africano, l’uomo che sconfisse Annibale ed ottenne grandi trionfi militari e politici. Uno dei condottieri più valorosi di tutta la romanità. Ignorato dalla letteratura, apparve in uno scritto inglese, primo ed ultimo del resto, ad opera di un modesto prelato di provincia. Eppure fu un uomo colto e sensibile, conoscitore profondo della mente umana, che eccelse nella rara prerogativa di accattivarsi, durevolmente, l’animo di amici e di avversari, tanto da riuscire a trasformare, in fedeli alleati di Roma, nemici fieri e combattivi ed a pacificare le bellicose ed inquiete tribù della Spagna, impiegando metodi e tecniche che oggi chiameremmo di guerra psicologica. Tattico geniale e duttile, insuperabile nell’impiego della cavalleria e nel realizzare la sorpresa, abile tanto in campo aperto quanto nelle attività di guerriglia, insuperabile nelle svolte decisive durante gli assedi a fortezze o roccaforti, combatté quasi tutte le sue battaglie con forze inferiori a quelle avversarie, riuscendone sempre vittorioso, grazie a superiori capacità di manovra. Stratega nella piena eccezione del termine, improntò la condotta delle guerre ad una visione globale della situazione, coordinando in modo mirabile i fattori militari con quelli politici ed economici. Lo studio delle sue campagne ne rivela la straordinaria attualità delle concezioni.
Publio Cornelio Scipione, dal cognomen ex virtute di Africanus, nacque a Roma nel 235 a.C. Sebbene sia appartenuto ad una delle più illustri ed antiche famiglie, la “gens Cornelia”, della sua infanzia e della sua evoluzione educativa non è mai pervenuta alcuna notizia, nemmeno un aneddoto. Dati sicuri sulle sue gesta, di uomo ormai maturo, sono praticamente limitati alle opere di Polibio e di Livio, con qualche traccia di alcuni altri autori dell’antichità che, peraltro, non danno grande affidamento. Il primo, greco d’origine e più vecchio dei due, quasi contemporaneo di Scipione, offre sicuramente maggiori garanzie di parzialità di un Livio, fortemente imbevuto di un evidente fervido patriottismo romano. Infatti la critica storica è sempre stata unanimemente concorde nel riconoscere l’imparzialità, il completo valore delle indagini e la solidità della percezione analitica di Polibio.
Dopo la battaglia di Canne del 216 a.C., la sorte di Roma sembrava segnata. Nessun generale romano aveva osato affrontare Annibale in terreno aperto, tutt’al più, come nel caso di Fabio Massimo, ci si era limitati ad una blanda guerriglia. Publio Scipione, invece, rimescolò le carte. Sbarcò prima in Spagna e poi in Africa, costrinse Annibale a scontrarsi su di un terreno che non aveva scelto, lo isolò pubblicamente e lo batté a Zama, nel 202 a.C. Quel giorno non salvò solamente Roma, ma pose le basi del suo futuro impero. Non a caso, fu definito “il fondatore della civiltà romana”. Per molti è stato paragonato a Napoleone e, per altri, è stato giudicato ancora più grande.
L’Imperatore francese disse un giorno: “Gli allori non valgono più come tali, quando sono macchiati dal sangue dei cittadini”. Un’affermazione che, peraltro, giungeva da uno strano pulpito. L’ambizione del Bonaparte, innegabilmente, prosciugò il sangue della Francia, così come quella di Cesare lo fece versare a Roma. Allora, basterebbe questo per strappare l’alloro dalle fronti di entrambi ed allargare la frattura che li ha separati da Scipione, impareggiabile risparmiatore di sangue e di forze, al servizio del proprio Paese. Non è quindi difficile immaginare per quale motivo Napoleone non lo incluse nel suo elenco di modelli militari.
Il citato ecclesiastico inglese, che nel 1817 scrisse una biografia tanto concisa quanto priva di ogni riferimento storico e ricca di evidentissime sviste, ebbe, se non altro, un lampo di intuito e di genio epigrammatico, quando disse che il condottiero romano era stato “più grande del più grande degli uomini cattivi e migliore del migliore di quelli buoni”. Un abate francese, tale Seran de la Tour, in una dedica al proprio sovrano, Luigi XV, scrisse: “Un re deve solo prendere a modello l’uomo senza dubbio più illustre della storia romana, Scipione Africano. Il Cielo stesso pare aver formato questo particolare eroe per indicare ai reggenti di questo mondo l’arte di governare con giustizia”. Sicuramente fu una lezione che rimase lettera morta per il sovrano francese, un uomo che quando sedeva ad un tavolo di consiglio, apriva poco la bocca e non pensava affatto, particolarmente ricco di vizi volgari e completamente spoglio di scopi superiori.
Se i successori di Scipione avessero posseduto anche un solo briciolo della sua saggezza e della sua lungimiranza, l’Impero Romano avrebbe potuto seguire una rotta diversa, con la creazione di una cintura di Stati cuscinetto, prosperi e semi-indipendenti, attorno al cuore della sua potenza. Le invasioni barbariche avrebbero potuto essere scongiurate ed il progresso della civiltà avrebbe forse evitato mille anni di coma e quasi altrettanti di convalescenza. L’opera di Cesare aprì la strada al declino, quella di Scipione rese possibile una comunità mondiale di stati forti, che riconoscevano il predominio di Roma, ma conservavano gli organismi interni indipendenti, necessari al mantenimento ed alla vita del corpo politico.
Operò sempre per il bene e la grandezza dell’Urbe, ma non fu semplicemente un patriota. Fu un vero statista, di prepotente levatura. Sintomatica una frase di Polibio: “Zama consegnò il mondo a Roma, Farsalo lo consegnò a Cesare”. Zama e Farsalo, le battaglie chiave dei due condottieri. Scipione seppe, infatti, guardare al di là della grandezza di Roma e vedere la vastità dei servigi di Roma all’umanità. La maggior parte dei più famosi comandanti, nell’intero arco della storia, ha avuto una concezione della guerra che non andava oltre la sottomissione del nemico, mediante la forza. Nell’Africano, fu evidente la totale mancanza di spirito vendicativo ed il modo magistrale con cui seppe consolidare la sicurezza militare della crescente Capitale del mondo, senza un inutile durezza verso i sottomessi, nutrendo sempre un forte scrupolo nell’annessione degli stati civilizzati. Questo scongiurò l’insorgere, nei vinti, di sentimenti di frustrazione e di velleità di rivincita e preparò la strada alla trasformazione dei nemici in veri alleati, efficaci puntelli della “vis romana”. Era in grado di infliggere disfatte militari con efficacia e brillantezza, pari a quella di altri magnifici comandanti ma, forse come nessuno, riusciva ad intravvedere il vero obiettivo, posto al di là della vittoria sul campo.
Pensava che la pace e la guerra fossero le due ruote su cui girava il mondo e si cimentò per realizzare quel robusto asse centrale, che potesse collegare ed unire le ruote, assicurando loro un movimento progressivo e coordinato.
Dopo aver definitivamente sconfitto il re siriano Antioco III ed essere stato, alla fine, ingiustamente accusato da Catone di aver sottratto, assieme al fratello Lucio Cornelio, gran parte del bottino di guerra, troppo orgoglioso per difendersi da una tanto infamante calunnia, preferì ritirarsi in volontario esilio, a Liternum, presso l’attuale città campana di Lago Patria, dove morì pochi anni dopo, nel 183 a.C.
“Scipio”, in latino significava propriamente “bastone di sostegno”. Publio Cornelio Scipione Africano fu il bastone di sostegno, non la frusta, sia di Roma che del mondo. Quando comparve alla ribalta della storia, il potere dell’Urbe non si estendeva nemmeno sulla totalità dell’Italia peninsulare e della Sicilia e quell’esigua fascia territoriale era gravemente minacciata dall’invasione o, per meglio dire, dalla consolidata presenza di Annibale. Alla sua morte, la città eterna era l’incondizionata padrona del mondo mediterraneo, senza alcun possibile rivale che si profilasse all’orizzonte.

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