Un “tuttologo” vero

Abbiamo imparato il suo nome nei primissimi anni delle elementari e ci ha familiarmente accompagnati fino alle superiori. Le sue tavole numeriche, chiamate semplicemente “tabelline”, croci e delizie di interi pomeriggi trascorsi a ripeterne ad alta voce i valori, fino allo stremo delle forze, ed il suo famoso “teorema”, imparato a memoria come una filastrocca, lo hanno reso costantemente presente nel corso della nostra gioventù. Ma sulla sua vita, su quanto abbia realmente rappresentato nel mondo del sapere, sulla sua scuola di pensiero, una delle più importanti dell’umanità, non ci siamo mai veramente soffermati, anche se a lui è stata attribuita la creazione del termine “filosofia” (φιλοσοφία), inteso come amore per la sapienza. “Tutti gli uomini aspirano per loro indole al sapere”, diceva Aristotele, “ed il primo sapere è quello di rendersi conto della natura che li circonda”. E la natura che lo circondò nell’intero arco della vita, scaturì dall’intuito che la matematica fosse l’unica, l’assoluta ed inequivocabile fonte per descrivere l’universo delle cose.
Pitagora nacque, intorno al 580 a.C., a Samos, capoluogo dell’omonima isola dell’Egeo settentrionale, che sotto il tiranno Policrate era diventata una forte potenza navale ed aveva acquistato una vasta supremazia sull’arcipelago e sulle città della costa. Gli anni che trascorse in patria, prima di emigrare in occidente, quelli della giovinezza e della prima maturità, furono sicuramente di studio e di viaggi, che la tradizione gli attribuisce in Oriente ed in Egitto. Del resto, la realtà di Samos, centro attivissimo di incontri e di scambi sul Mediterraneo, rende assolutamente credibile che Pitagora non sia restato indifferente alle sollecitazioni ed ai richiami di una vita e di una società così varia e complessa.
All’età di quarant’anni, insofferente ad una tirannia divenuta, col passare del tempo, molto più dura di quanto fosse lecito ad un uomo libero sopportare, partì per l’Italia, con destinazione Crotone, colonia dell’Acaia che, fondata alla fine dell’VIII Secolo, aveva offuscato la già esistente Sibari, assumendo il ruolo di centro più importante della Magna Grecia. Quali furono i motivi per cui la elesse a sua dimora, non è noto. Verosimilmente, la presenza di una validissima scuola medica e la forza di una salda tenace tradizione delfica della città, furono per lui, fedele devoto alla divinità di Apollo, il motivo determinante per la scelta. Del resto, quel suo citato irriducibile amore per il sapere, strettamente collegato al culto del Dio di Delfi, figlio di Zeus e di Latona, era totalmente indirizzato alla ricerca del “principio” di tutte le cose ed alle scienze nelle quali quel principio manifestava la propria validità, che erano la geometria, la musica, l’astronomia e la medicina.
Quando dunque Pitagora arrivò a Crotone, nel patrimonio culturale che portava con sé, erano già presenti i due elementi che avrebbero costituito i cardini della sua scuola futura: la questione del destino dell’anima e l’esigenza del sapere teoretico che, superate le finalità pratiche, doveva essere coronamento e bene supremo della vita. Aveva una personalità ricca di fascino, la stessa che già nella Ionia aveva suscitato meraviglia e forse anche diffidenza. Credeva nella “metempsicosi”, nella reincarnazione delle anime dopo la morte. Fu proprio lui ad averne fatto un motivo di perfezionamento morale, ponendola consapevolmente a fondamento del rispetto dovuto ad ogni essere vivente. E ci credeva perché fermamente convinto della forza della sua anima. Sosteneva, con categorica determinazione, di essere stato Etalide, Euforbo, Ermotimo, Pirro e poi Pitagora, affermando che ognuno, solo che lo avesse voluto, avrebbe potuto intensificare e prolungare le proprie esperienze di vita. E così, comprensibilmente, intorno a lui si formò una leggenda, favorita dal suo aspetto esteriore e dalla magia dei suoi poteri sovrannaturali, alla quale dovette dare l’avvio, con il racconto delle sue rinascite. Aristotele stesso, ne parlò in un suo libro, disgraziatamente perduto, dal titolo “Sui Pitagorici”, dove raccontava fatti eclatanti, divini che, ovviamente, erano semplici fantasie da popolino. Di certo, lo storico Porfirio, di origine fenicia e morto a Roma nel 305 d.C., parlava di un Pitagora che “udiva l’armonia dell’universo, delle sue modificazioni, quali la gente normale non percepisce per la limitatezza della sua natura [lett.]”, evidenziando le sue doti eccezionali, particolarmente acute, nella vista, nell’udito e nell’intelligenza.
Il suo pensiero filosofico ed i suoi insegnamenti, solo orali ed affidati esclusivamente alla memoria, conducevano all’idea che il numero era il principio di tutto. Nei numeri scorgeva molte somiglianze con ciò che già esisteva o era in divenire, più che nel fuoco, nella terra, nell’acqua. Il fulcro del suo ragionamento ricadeva nella posizione che essi ricoprivano, dividendosi in “pari” e “dispari”, assegnando ai primi un valore infinito, ai secondi uno limitato. La coppia pari-dispari, conteneva quella di illimitato limite, dal momento che “il numero pari permette la dicotomia dell’infinito, mentre il dispari, opponendo alla dicotomia l’unità, ne impedisce il processo”. Pitagora, dette una base teorica alla concezione sofisticamente polare della natura, cioè una base teorica alla dottrina delle opposizioni, quali pari e dispari, per l’appunto, uno e molteplice, destro e sinistro, maschio e femmina, buono e cattivo, e così via. Su questo concetto monistico-dualistico della natura, si poggiavano i fondamenti delle scienze alle quali il suo l’insegnamento dette l’avvio. Si accorse dell’esistenza delle quantità incommensurabili, per le quali non esisteva una minima comune misura. La stessa constatazione dovette fare in sede geometrica, sul triangolo rettangolo e sul rapporto esistente tra l’ipotenusa ed i suoi cateti, senza tralasciare il cerchio e la sfera, rappresentati nel cosmo dallo zodiaco e dallo spazio celeste, figure perfette, nelle quali potevano esserne inscritte delle altre, regolari, piane nel cerchio, solide a facce piane, nella sfera.
Con lui iniziò anche l’interpretazione matematica del cielo e degli astri. Ebbe per primo l’intuizione che l’infinito fosse regolato da leggi numeriche e lo chiamò “cosmo”, per l’ordine che vi regnava. La sfericità della terra fu il presupposto necessario per la concezione matematica della sua astronomia, fondata anche sulla rotazione diurna dell’universo intorno ad essa, da oriente ad occidente che, come moto semplice, poteva spiegarsi facilmente con un’unica causa motrice. Notevole fu, inoltre, l’influenza dei principi pitagorici sulla scuola medica di Crotone, che prese piede subito dopo la sua morte, avvenuta nel 495 a.C., a Metaponto.
La fama del “tuttologo” Pitagora, del matematico, taumaturgo, astronomo, scienziato e politico, risalì lungo lo stivale italico, dalla Magna Grecia fino a Roma, assumendo, in quel mondo, l’espressione di una concezione di vita da “èlite” intellettuale, riservata ad un ceto aristocratico e colto, che in modo singolare riprodusse, nello spirito se non nella forma, l’originaria ispirazione organizzativa attuata dal maestro a Crotone, anche se, nell’Urbe, la sua eredità si concretizzò unicamente nella gestione dello Stato, della cultura e della religione, ignorando quasi del tutto la sua scienza. Solo con Publio Nigidio, a cui venne assegnato il soprannome di “Figulo” (vasaio), perché sosteneva che la Terra girava su sè stessa con la stessa rapidità di un tornio, amico fraterno di Cicerone, nel I Secolo a.C., si ebbe la restaurazione scientifica della dottrina pitagorica, nei suoi fattori matematici ed astronomici e nel suo carattere originario di casta aristocratica, di setta segreta e di opposizione politica. Furono riutilizzati i vecchi simboli pitagorici, il linguaggio iniziatico ed il motivo del “ipse dixit”, anche se lontani da quell’antica atmosfera, da quella assoluta ingenua fiducia nella parola del maestro, che insegnava il mistero dell’oltretomba, la ruota delle rinascite e la segreta potenza del numero.
Troppo tempo era passato, troppa civiltà, troppa cultura. L’elemento vitale ed eterno della dottrina pitagorica, passato ormai nei matematici, nei naturalisti e negli astronomi, si manifestò alle soglie dell’età augustea, nella cosiddetta “Setta dei Sestii”, una scuola di pensiero filosofico fondata, a Roma nel 40 a.C., da Quintilio Sestio. Essa ebbe, alla fine, un carattere di pacata opposizione politica al principato di Tiberio ed una breve fortuna. La primordiale necessità di un sostegno alla classe aristocratica, a difesa dell’ideale conservatore repubblicano, non aveva più ragion d’essere e si estinse, trascinando nell’oblio tutti i propri valori.

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