Il potere del boia (1a parte)

“Il mio fedele Heinrich!”: così Adolf Hitler amava Himmler, suo temibile uomo di fiducia. Padrone assoluto delle SS, vera punta di diamante del III Reich, egli finì per dominare anche la Gestapo e tutti i campi di concentramento, cosa che gli permise di essere l’uomo più informato della Germania e, soprattutto, il principale responsabile della morte di milioni di persone, coadiuvato, tra gli altri, da Adolf Eichmann, il “sinistro contabile dello sterminio”. Partecipò a tutte le grandi operazioni del nazismo, fin dalla sua nascita. Furono notoriamente le sue SS a mettere in atto, nel 1939, la provocazione del falso attacco ad una stazione radio compiuto da sedicenti soldati polacchi, preludio della Seconda Guerra Mondiale. Nulla, nelle origini e nella giovinezza, lo sembrò predisporre ad un ruolo di tale portata.
Heinrich Luitpold Himmler era nato a Monaco, il 7 ottobre 1900, in una famiglia unita e felice. Suo padre Gerhard, professore di lettere, occupava un posto importante nel liceo della città. Godeva di un’alta considerazione generale e doveva essere un pedagogo molto brillante se, qualche anno dopo, gli fu affidata l’educazione del Principe Heinrich di Baviera. I rapporti tra il professore ed il suo ex allievo restarono sempre eccellenti, tanto che il Principe accettò di essere il padrino del neonato a cui venne dato, in suo onore, lo stesso nome di battesimo.
Ne sono prova alcune lettere inviate dagli Himmler alla Famiglia Reale dei Wittelsbach, di cui il Principe, figlio di Arnolfo di Baviera e Teresa del Liechtenstein, era il successore al trono. In una di queste c’era scritto: “All’indomani della nascita, egli pesava sette libbre e duecento grammi”.
Gli anni della adolescenza trascorsero nella normalità di una vita semplice. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la mente e lo spirito del giovane, appena quattordicenne, furono animati da fortissimi sentimenti patriottici, fuori dal comune a quell’età. Heinrich incominciò a tormentare il padre, ricco di quell’importante conoscenza, affinché lo aiutasse a trovare un posto di Ufficiale Cadetto nell’Esercito, ancor prima di terminare il ginnasio. La guerra, però, finì senza dargli l’opportunità di partire per il fronte.
Nel 1922, conclusi con il massimo dei voti gli studi universitari in agraria, trovò lavoro presso una ditta di concimi, la Stickstoff-Land di Monaco. L’anno seguente, dopo essersi iscritto al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, con la tessera n. 156, partecipò al fallito “Putsch (lett. Colpo di stato) di Monaco” e, mentre due importanti artefici, Ernst Röhm e Adolf Hitler, vennero arrestati, lui, giudicato un insignificante comprimario, non subì alcun tipo di punizione.
Nella primavera del 1925, licenziato e senza più un lavoro, decise di entrare in un nuovo schieramento politico, “Il Movimento di Liberazione Nazionalsocialista”, capeggiata da Erich Ludendorff. In quell’ambiente, conobbe Gregor Strasser, del quale divenne, in breve tempo, segretario personale. Iniziò velocemente a scalare i vertici del partito, fino a conseguire, nel 1927, la funzione, in sede vacante, di Dirigente Nazionale delle “Schutzstaffel”, drammaticamente conosciute come “SS” (lett. “Squadre di Protezione”). Queste, create come organizzazione paramilitare del Partito Nazionalsocialista, con incarichi di polizia e di sicurezza interna, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale divennero tristemente operative in tutta l’Europa occupata dai tedeschi.
Entrato, dopo una serie di incontri, nelle grazie di Adolf Hitler, eliminati tutti gli avversari interni con la creazione di false prove sagacemente a lui riportate, il “rampante” giovane vide il suo potere estendersi progressivamente a tutti i campi dell’attività nazionale. Nel 1936, due anni dopo la “Notte dei Lunghi Coltelli” (“Nacht der langen Messer”), la sanguinosa epurazione con duecento vittime, avvenuta per mano delle SS su ordine del Cancelliere nazista, tra il 30 giugno e 1 luglio del 1934, che coinvolse i vertici delle SA (Sturmabteilung – Reparti d’Assalto o “Camicie Brune”), ritenuti cospiratori e sovversivi, unitamente ad altri oppositori del regime, egli diventò Reichsführer SS, Capo Supremo di tutte le Polizie del Reich e, dunque, il secondo uomo più potente del Governo.
Rimase, altresì, a detta di tutti, un uomo molto semplice, che provava grande piacere nel frequentare i vecchi amici di gioventù. Non fu felice con la moglie Marga e, anche se non divorziò a causa della figlia, si allontanò da lei, iniziando una relazione con un’altra donna. Come funzionario era di un’onestà eccezionale. Benché possa sembrare inverosimile, trovò non poche difficoltà nel mantenere le sue due famiglie e non riuscì mai ad accumulare nessuna fortuna. Contrariamente alla maggior parte dei gerarchi nazisti, non era cinico, mancava totalmente di senso dell’umorismo ma non di finezza, dando prova, in ogni circostanza, di una totale padronanza di sé e di una insensibilità inquietante. Organizzatore nato, Himmler era sentenzioso e verboso. Non concepiva la sua missione senza Hitler, nutrendo per lui una fedeltà incondizionata. La sua mente logica non era razionale. Credeva nel magnetismo, nella veggenza e nella magia. Il suo razzismo era profondamente integralista e motivato da ogni sorta di argomenti, che giudicava sinceramente circostanziati e giustificati.
Fermamente convinto, quindi, di quegli “ideali”, non vedeva nell’eliminazione del popolo ebraico solo l’esigenza pratica del potere nazista. Era un credo che lo portò ad assegnare alle SS il carattere di un “Ordine” che volle “Cavalleresco” e che pensò di “aver stabilito per duemila anni” (lett.).
Agli inizi del ’38, i venti di guerra incominciavano a spirare, sempre più forti, sempre più vicini. Il Cancelliere tedesco sapeva, meglio di chiunque altro, che la pace non poteva durare; la sua politica, del resto, aveva teso proprio a questo per diciassette anni. Pensava, persuaso anche dalle idee del loro Reichführer, che le SS, armate solo per egire all’interno del Paese, non sarebbero state in grado di combattere contro nemici esterni. Il 17 agosto 1938, Hitler firmò un decreto col quale veniva precisato che le “Allgemeine SS” (SS generali) non facevano parte “né della Wehrmacht, né della Polizia”. Esse costituivano dei reparti armati ad esclusiva disposizione del Führer. Sei mesi dopo decise di fondare le “Waffen SS” (SS combattenti), unità poste sotto gli ordini del numero due nazista, che comprendevano reggimenti di fanteria e gruppi incaricati della sorveglianza dei campi di concentramento, già da tempo realizzati.
In dieci anni, costui fece delle sue SS la spina dorsale della Germania hitleriana. L’”Ordine Nero” (dal colore delle uniformi, con il “Tokenkopf”, teschio, come fregio del berretto) regnò dappertutto nel Paese e fu sostegno sia del partito che dello Stato.
Mai, in così pochi anni, un uomo politico era riuscito ad impossessarsi del potere e a trasformare l’aspetto di una nazione. Dietro Hitler c’era sempre lui, come un’ombra, dall’aspetto sinistro, inquietante, esoterico, diabolico.
Non c’è da sorprendersi, quindi, che l’avvio del più vasto conflitto della storia dell’umanità sia stato dato da uomini di questo “ordine nero” e che la prima operazione sia stata un atto di provocazione, nascosto sotto il nome di “Operazione Himmler”. Perché fu proprio il subdolo collaboratore del Cancelliere ad avere, e a suggerirgliela, l’idea di simulare un attacco polacco per giustificare l’inizio dell’offensiva tedesca contro quello Stato. Servì, quindi, su di un piatto d’argento, la soluzione più rapida all’assillante volontà del Führer, nata già nel giugno del 1939, di invadere la Polonia. Fece indossare uniformi polacche a circa trecento dei suoi uomini, perfetti conoscitori della lingua che, agli ordini del Colonnello Alfred Naujocks, dovevano simulare l’irruzione in una stazione radio tedesca, a Gleiwitz, nei pressi della frontiera, alle ore 05,45 del 1° settembre. La Wehrmacht (insieme delle Forze Armate tedesche) rispose prontamente ed invase la Polonia.
Col passare del tempo, la Heer, l’esercito regolare, non nascose la sua ostilità verso le SS. Il Reichführer, da parte sua, fece di tutto perché, agli occhi di Hitler, lo Stato Maggiore della Wehrmacht si squalificasse. Quando, dopo la vittoriosa campagna di Polonia, il Capo del Reich annunciò l’intenzione di lanciare le sue truppe contro gli alleati dell’ovest, nelle settimane che seguirono i vertici militari erano costernati. Secondo loro la Germania non era, al momento, in grado di affrontare un esercito come quello francese, appoggiato, per di più, dalla Gran Bretagna. I Generali consideravano che tale campagna non avrebbe avuto niente a che vedere con la “marcia vittoriosa” contro la Polonia ed alcuni espressero, senza sbilanciarsi troppo, i loro dubbi sul valore militare del “Caporale bohémien”. Si parlò perfino, in alcuni circoli, della sua eliminazione, ma nessuno ne prese la responsabilità.
Adolf Hitler, in verità, sfuggì miracolosamente ad un attentato, l’8 novembre del 1939, nella birreria Bürgerbräukeller di Monaco. Il fedele Capo Supremo delle SS, subito informato, si mise alla ricerca del colpevole. I suoi Servizi trovarono ben presto colui che affermarono essere l’autore: un falegname simpatizzante comunista, di nome Johann Georg Elser, che aveva ricevuto dalla Gestapo (Geheime Staatspolizei – Polizia Segreta di Stato) una grossa somma di denaro e la promessa di essere condotto alla frontiera svizzera. Elser, incredibile a dirsi, non venne, né torturato né condannato a morte. Ci si accontentò di ricondurlo a Dachau, dove era stato prelevato. Il motivo? Himmler aveva saputo dal suo astrologo privato, un certo Wilhelm Wulff, che la sorte del Padrone del III Reich era ormai legata a quella del falegname attivista, il quale, per la cronaca, trascorse tutta la guerra a Dachau e venne fucilato dalle SS alla vigilia dell’evacuazione del campo, prima dell’arrivo dell’Armata Rossa.
Verso la fine dell’estate del 1940, “il fedele Heinrich” avvertì, e ne fu coscientemente consapevole, che le “Waffen SS” erano cadute nel dimenticatoio. Agli occhi del Fürher e dei Generali dell’O.K.W. (Oberkommando der Wehrmacht – traducibile in italiano come “Alto comando delle Forze Armate Tedesche) contava solo il valore militare. Doveva, quindi, riorganizzare gli organici del “suo esercito personale”. Ancora una volta, con i suoi fedelissimi, trovò la soluzione, spostando, come pedine degli scacchi, Divisioni, Brigate e Reggimenti sotto Comandi continuamente modificabili.

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