Aviazione, aiuto! (1a parte)

L’importanza decisiva che riveste l’aviazione, a partire dal secondo conflitto mondiale, fino ai giorni nostri, è argomento noto e scontato. Non c’è bisogno di essere dei tecnici per rendersi conto del peso che ha avuto la guerra aerea, nelle zone d’operazione, negli attacchi agli impianti industriali, nelle aree di riserva e di sostegno. E’ poi una macchina doppiamente micidiale, sia per le perdite ingenti che può produrre al nemico, sia per l’azione psicologica di demoralizzazione che è in grado di provocare in chi viene attaccato.
L’uomo, “animale terrestre bipide”, come diceva Aristotele, non ha mai sopportato di venir aggredito dal cielo. La cosa lo ha sempre molto atterrito, al di là della reale portata del reale pericolo da fronteggiare. Che sia rimasta in lui un’ancestrale, atavica paura degli assalti degli uccelli predatori, contro i quali poco o nulla potevano fare le sue frecce, le sue fionde, le sue trappole, l’organizzazione “sociale” della sua intelligenza? E’ un’ipotesi possibile. Sta di fatto che l’aquila, fin dai tempi, è sempre stata un emblema di gloria e di potenza militare. L’uomo, dunque, ha ammirato (e perciò temuto) le aquile, sino a che non è riuscito ad emularle, dominando lui i cieli, pur restando animale “terrestre” e “bipede”.
Da ciò sicuramente deriva quel senso di “superiorità”, che ha sempre caratterizzato gli aviatori: uomini pronti ad affrontare sacrifici e rischi di ogni genere, pur di potersi fregiare dell’”aquilotto d’oro” sul petto, sul taschino della propria uniforme; uomini che, per quel distintivo, si sono sempre sentiti un po’ al di sopra dei comuni mortali: uomini che “volano”, uomini “a parte”. Tra loro, vivono un mondo chiuso, riservato, con un proprio codice d’onore, con proprie regole, con un gergo incomprensibile al profano, con ambizioni, ammirazioni, ricordi, percependo che solo chi è “dentro” può comprendere ed apprezzare veramente.
Tale comprensione non conosce frontiere. Si intendono meglio due piloti di differente nazionalità, che non ciascuno di loro con i propri connazionali “uomini comuni”.
Per questo la guerra dell’aria, nel secondo conflitto, è stata vissuta dai protagonisti, come una vicenda a sé stante, almeno per ciò che si riferisce a quegli episodi (e furono davvero numerosi) nei quali il pilota affrontava il pilota ed i due si davano battaglia nei cieli, con duelli “all’antica”, non privi di una nobiltà generosa, anche nei confronti dell’avversario. Ne sono testimonianza le innumerevoli pubblicazioni, apparse in Francia, in Germania, in Inghilterra, negli Stati Uniti, sugli episodi della guerra aerea, pubblicazioni nelle quali, accanto all’ammirazione rivolta agli uomini ed alle loro imprese, vive anche quella per i velivoli (ai quali le necessità della guerra avevano fatto compiere progressi prodigiosi nel giro di pochi anni, anzi talvolta, di pochi mesi).
Gli “Stukas”, i “Messerschmidts”, gli “Heinkels”, gli “Hurricanes”, gli “Spitfires”, le “Fortezze Volanti”, i “Liberators”, i “Mosquitos”, gli “Yacks”, gli “Zero”, i “Lightnings” ed altri ancora sono entrati così nella leggenda, assieme ai loro piloti.
“Per un pilota”, aveva scritto Pierre Clostermann, asso dell’aviazione francese nella Seconda Guerra Mondiale e morto nel marzo del 2006, “ogni velivolo ha una personalità sua propria e questa personalità riflette sempre lo spirito di quelli che lo hanno costruito e forma la mentalità di coloro che lo hanno portato in combattimento. Lo “Spitfire”, ad esempio, era tipicamente britannico. Particolarmente sobrio, rappresentava un compromesso perfetto fra tutte le qualità che si esigevano da un velivolo da caccia, difensivo per eccellenza. Marcava a tal punto i suoi piloti che, quando questi venivano trasferiti su altri tipi di aeroplani, l’assuefazione era molto, troppo difficile”.
E lo stesso poteva dirsi dello “Stuka” tedesco, pesante, massiccio, poco agile e, al tempo stesso, terrificante per potenza, resistenza e capacità offensiva.
Ma consultando e scorrendo le riviste straniere ed i libri italiani sull’argomento, comparativamente assai meno numerosi, si ha come l’impressione che i nostri aviatori ed i nostri aerei non siano entrati nella leggenda, salvo qualche rarissima eccezione. E’ stato dunque così scarso il contributo italiano alla guerra aerea? Forse che l’aviazione militare italiana non ha avuto assi o eroi, degni di comparire accanto ai nomi dei colleghi inglesi, tedeschi, francesi, americani e giapponesi?
La cosa appare tanto più strana se si considera che, nel periodo tra le due guerre, l’aviazione militare e quella civile avevano stupito il mondo con imprese eccezionali e con la conquista di record prestigiosi. Le nostre industrie incassarono milioni di lire (di allora!) per la costruzione di apparecchi commissionati da stati stranieri. I Centri Sperimentali di Volo di Guidonia e di Furbara suscitarono l’ammirazione dei gerarchi tedeschi e dei capi militari giapponesi. Numerose caratteristiche tecniche dei nostri velivoli e delle loro armi di bordo “facevano gola” ai francesi, agli inglesi ed agli americani, che non poco si sforzarono di imitarle e riprodurle. L’arma aerea italiana prebellica era decisamente proiettata verso il futuro, decisamente all’avanguardia.
E allora? E allora bisogna innanzitutto correggere i silenzi, le reticenze, in qualche caso anche le ingiuste e sbrigative valutazioni degli storici stranieri. Basterebbe rammentare i giudizi e i resoconti di quegli inglesi che affrontarono in volo gli italiani sul Mediterraneo. Valutarono con uno spirito di equità assai più limpido che non gli storiografi, che con i piloti non ebbero mai nulla a che fare, vedendoli combattere con i “Fiat CR 32” contro i propri Hurricanes, riuscendo ogni tanto perfino ad abbatterli o a bordo dei bombardieri “Caproni Ca. 135”, che colpivano, mastodonticamente vulnerabili, in formazione quasi “da parata”.
Del resto, è pur vero che ci si deve scontrare con la solita questione ed il solito dato che sempre è emerge quando si discute della guerra italiana e si ragioni sulle cause della sconfitta: mancanza di mezzi, di materie prime, inadeguatezza delle strutture industriali e di quelle organizzative. Le ostilità, è cosa arcinota, non dovevano scoppiare prima del 1942. Tutti i piani di ammodernamento e di potenziamento delle armi italiane, erano stati calcolati su quella data. Quando poi scoppiarono, nel ’39, e per noi nel ’40, sarebbero dovute durare pochissimo, un anno a dir molto. Sulla base di ciò erano state calcolate tutte le nostre scorte, tutte le nostre possibilità di resistenza. All’inizio del conflitto, comunque, l’Italia non era molto più impreparata delle altre nazioni belligeranti. A nostro sfavore avevano giocato anche le due campagne che ci videro in prima linea, quella di Etiopia e quella di Spagna. Soprattutto per quanto concerne l’Aeronautica Militare, queste avevano lasciato un vuoto praticamente incolmabile e in tempi brevi, anche se all’inizio le nostre forze aeree non erano complessivamente inferiori a quelle nemiche, ma lo divennero assai presto ed in proporzioni intollerabili.

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