L’aquila senza artigli

Fino ad allora, nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe potuto accadere. Ma da allora il cammino della storia, con una “escalation” esponenziale, ha preso una direzione capace di cambiare, per sempre, la vita dell’umanità.
Tutto iniziò proprio quarantuno anni fa, quando la mattina del 1° aprile 1979, l’Iran si svegliò, dopo il voto referendario di due giorni prima, Repubblica Islamica, ispirata, inizialmente, ad un’apertura liberale contro la rigida dittatura, rappresentata dalla figura dello Scià.
Ma il 4 novembre, una folla inferocita, guidata da gruppi di studenti integralisti islamici e da sette rivoluzionarie, assaltò l’Ambasciata degli Stati Uniti a Teheran e prese in ostaggio tutti i funzionari degli uffici di rappresentanza diplomatica. L’episodio fu senza precedenti nella storia moderna, anche in tempi di guerre o rivoluzioni.
Il governo di Teheran, anziché dissociarsi da quella violazione di norme primarie nella convivenza tra Stati, chiese, in cambio dei prigionieri, la consegna del monarca destituito, Mohammad Reza Pahlevi, già condannato alla pena capitale e con una taglia per chi lo avesse restituito vivo o morto, ricoverato in quei giorni presso un ospedale di New York.
Il sequestro di una rappresentanza diplomatica, nella complicità del governo che lo ospita, era ed è un atto al quale la legge internazionale permette di opporre misure uguali e contrarie.
Una simile rappresaglia, con l’eventuale prospettiva di uno scambio dei prigionieri, venne totalmente esclusa dal governo di Washington.
D’altra parte un’operazione come il raid di Entebbe, compiuta dalle forze speciali israeliane il 4 luglio 1976, nell’aeroporto ugandese, per liberare gli ostaggi di un volo Air France proveniente da Tel Aviv, ripetuta, in questo caso, lontano dal mare ed in una grande città vicina ai confini dell’URSS, non sarebbe stata certo favorita dall’effetto sorpresa. Sicuramente, prima del lancio della più efficiente “task force” statunitense sull’ambasciata o sull’aeroporto, gli ostaggi sarebbero stati uccisi. Unica alternativa, quindi, un intervento militare su larga scala, punitivo, distruttivo che, quasi certamente, avrebbe innescato reazioni a catena sul piano internazionale.
Dopo il recentissimo decennio di sollevazioni e di discordie sulla guerra del Vietnam, “persa in casa” più che al fronte, il governo e la società americana non se la sentivano di ripetere una simile esperienza. Dal National Security Council al Pentagono, così come dal Dipartimento di Stato all’aula senatoriale, gli stati d’animo prevalenti oscillarono tra esasperazione e disperazione. Un tempo, come ricordava il critico militare Drew Middleton, i cannoni erano “l’ultimo argomento dei re”, ma ora l’uso della forza sarebbe stata la scelta più rischiosa, in un caso come quello di Teheran.
D’altra parte, la frenetica ricerca di una soluzione pacifica non fu cosa semplice. Estradare lo Scià, ossia “consegnare ai suoi nemici un uomo malato”? Tradire un alleato, benchè fosse stato un “moderno satrapo d’Asia”? Subire il ricatto di chi ha sequestrato un intero corpo diplomatico? Il cedimento, secondo il governo di Washington, avrebbe solo potuto comportare successive umiliazioni e non solo riguardanti l’Iran.
L’America non aveva concesso asilo politico allo Scià, spodestato dalla rivoluzione di Ruhollah Khomeiny, ma di certo non poteva impedire il suo ricovero in un ospedale di New York: queste le prime giustificazioni. Gli iraniani però le giudicarono un inganno ipocrita. Del resto, non esisteva un trattato di estradizione fra Iran e Stati Uniti, dunque nessun tribunale avrebbe ammesso un tale provvedimento. La xenofobia di Khomeiny non riconosceva alcun valore alle norme di quello che veniva definito Stato di diritto. Vale la pena ricordare che sul suolo americano risiedevano, all’epoca dei fatti, circa cinquantamila studenti di quel paese, alcuni dei quali avrebbero potuto subire la stessa sorte dei prigionieri americani. Almeno in quel caso, i capi del movimento xenofobo sapevano bene cosa era uno Stato di diritto, nel quale non erano concepibili ritorsioni o condanne sommarie, né arresti e deportazioni di massa. Anzi, accadde persino che gruppi di quegli studenti manifestassero, a Washington, contro il Presidente Jimmy Carter, proprio dinnanzi alla Casa Bianca, sventolando le loro bandiere e a New York dinnanzi all’ospedale dove era ricoverato lo Scià, recitando pubbliche e corali preghiere per la sua morte (Reza Pahlevi morì in una clinica del Cairo nove mesi dopo, il 27 luglio 1980).
Può servire a poco ricordare che la produzione petrolifera dell’Iran, ridotta non solo a causa di una scelta deliberata e di turbolenze post-rivoluzionarie, cessò completamente, perché priva di macchinari di ricambio e di specialisti, i quali potevano venire solo dagli Stati Uniti. L’ayatollah Khomeiny, nel suo radicale anti-industrialismo, giudicava irrilevanti simili problemi, anche se la sopravvivenza dei trentasette milioni di suoi concittadini divenne inizialmente tragica, per la mancanza totale della rendita proveniente dai pozzi di estrazione.
Una “guerra dei nervi”, di natura sconosciuta all’esperienza politica moderna, investì la società dei mass-media. Vedere ogni mattina ed ogni sera, sugli schermi televisivi, quei prigionieri bendati o legati, fu un trauma collettivo che, comunque, lasciò un segno. La tensione,quindi, aumentò negli USA, con virulenza, in parte repressa dai continui appelli alla valutazione delle responsabilità, ma con una latente insofferenza verso tutto ciò che i pubblici ammonitori definirono “l’attesa calcolata” del Presidente Carter.
Affiorò, nello stesso tempo, in America e fuori, il timore di una “nuova Sarajevo”. La vita degli ostaggi trattenuti a Teheran, sfidando anche il semplice rischio probabilistico di una tragedia per cause accidentali, poté essere valutata non meno della vita dell’Arciduca Ferdinando, mentre ciascuno degli “studenti” carcerieri poteva rappresentare il nuovo Gavrilo Prinzip, un terrorista come quello della setta “Ujedinjenie ili Smrt”, che uccise l’erede imperiale austriaco.
Lo Scià di Persia, malato terminale, si recò in Egitto. Falliti tutti i tentativi di ottenere il rilascio degli ostaggi per via diplomatica, gli Stati Uniti tentarono, alla fine, di salvarli con la forza, ma l’operazione denominata “Eagle Claw” (artiglio dell’aquila) fu un buco nell’acqua e provocò la morte di otto militari. Non vedendo risultati concreti, l’opinione pubblica americana sfiduciò completamente il Presidente Carter e la sua popolarità crollò rovinosamente.
Furono avviate trattative riservate mediante altri paesi mussulmani e gestite dall’Algeria, che portarono alla liberazione degli ostaggi solo il 20 gennaio 1981.

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