Giovanni di Salisbury, l’Uomo, la Libertà e la Virtù

“Perciò la libertà è proporzionale alla virtù e l’uomo è tanto più libero quanto più è virtuoso”. In queste parole di Giovanni di Salisbury, filosofo, scrittore e vescovo inglese del Medioevo, si condensa tutta l’essenza del suo pensiero, ma per meglio comprendere le accezioni di “virtù” e di “libertà” è bene risalire ai significati ad esse attribuite già in epoca romana.
Il sostantivo libertà è riconducibile al latino libertas, derivante da liber, un uomo sciolto dai vincoli con il padrone e autonomo legalmente, al contrario del servus, il quale era caratterizzato da un rapporto di subordinazione nei confronti del cliente. La propria condizione era pressoché impossibile da sovvertire, eccetto in rari casi in cui il servus diveniva liberto e poteva godere della propria autodeterminazione, recando il proprio lavoro al patronus; spesso, infatti, i liberti erano prigionieri provenienti dalla Magna Grecia che erano a conoscenza del greco, tanto da poterlo insegnare. È il caso di Livio Andronico. Tuttavia la libertà era strettamente connaturata, secondo i Greci, al fato, e conseguentemente la libertà di ognuno coincideva con l’accettazione del proprio destino.
È evidente quindi come solo mediante la virtus l’uomo poteva diventare artefice del proprio destino. Ma cosa s’intende per virtus?
Sin dagli albori della civiltà, la virtus coincideva con l’efficienza bellica, il coraggio e l’arte militare, in quanto, come ci ricorda il filologo irlandese Eric Dodds, siamo dinanzi alla “civiltà della vergogna”, fondata sul timore che emerge nell’eroe al mancato riconoscimento del suo statuto in battaglia. In Platone, e nella speculazione filosofica antica in ambito occidentale, le virtù corrispondevano al controllo della parte razionale dell’anima sulle passioni e i vizi, che, a detta di Salisbury, “riducono l’uomo indebitamente schiavo delle persone e delle cose”. Il coraggio, la moderazione e la giustizia come virtù morali verranno riproposte anche nel corso del Cinquecento da Niccolò Machiavelli, che identifica il duca Valentino come depositario della virtù al fine di creare una forte ed indissolubile compagine statale, essendo in grado di alternare la forza del “lione” e l’astuzia della “golpe”.
Dopo aver riflettuto sui valori semantici ed etimologici ci apparirà sicuramente più chiaro il quadro esposto da Giovanni di Salisbury: se in un primo momento la libertà appare affrancata alla virtù, in quanto solo grazie all’esistenza di quest’ultima l’uomo può dirsi libero, in un secondo momento appare evidente il rapporto in termini matematici e dunque “direttamente” proporzionale dalle qualità morali: al crescere dell’una aumenta l’altra così come al diminuire o al cessare della virtù sparirebbe la libertà.
L’autore ancora evidenzia come “la virtù fu la guida di tutti i buoni governanti e che la libertà venne calpestata solo dai nemici manifesti della virtù”, riferendosi anche alla figura di Catone l’Uticense, avversario di Cesare nella guerra civile, morto suicida a Utica dopo la sconfitta nella battaglia di Tapso. Il personaggio durante il Medioevo venne identificato come depositario e difensore delle libertà politiche e repubblicane, al punto di sacrificare la propria vita per perseguirle.
Da ciò sorge un altro interrogativo: noi saremmo disposti a sacrificare la nostra vita per la libertà o se non fosse propriamente questa, i nostri spazi, i nostri affetti, la quotidiana routine che improvvisamente viene sconvolta, come la rotta di una rondine che migrando viene colpita da un improvviso temporale, pur di metterci in salvo?
È forse questa la domanda che ogni giorno, tra le mura delle nostre abitazioni ci poniamo. Che prezzo ha la libertà?

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