Il Partito Comunista nell’Era Fascista

Chi, negli anni del grande emigrazione dall’Italia per sfuggire al regime fascista, svolse un’azione clandestina, metodica all’interno, collegata sistematicamente con i centri direttivi esteri, fu il Partito Comunista.Aveva iniziato la propria trasformazione segreta, contemporaneamente alla presenza ufficiale pubblica, parecchi anni prima che il grande esodo cominciasse: si potrebbe dire, addirittura prima della “Marcia su Roma”. Se l’antagonismo fascista si era rivolto contro il socialismo democratico e le sue organizzazioni collaterali, il comunismo era rimasto pur sempre il nemico numero uno, non fosse altro perchè l’impostazione anticomunista era quella che procacciava al regime più consensi e favori, sia in Italia che all’estero. Quando il fascismo salì al potere, più che mai, la sorveglianza e la coazione poliziesca si focalizzò contro il partito dell’opposizione. A quest’ultimo rimasero, come attività palese e regolare, la gestione del quotidiano l’”Unità”, sorto a Milano nel febbraio 1924 ed un gruppo di quindici deputati. In provincia, soprattutto nelle località meno importanti, i “compagni” si riunivano a piccoli gruppi, in case private, in cascinali, nei boschi ed in montagna. Comunque, fin dal 1923 almeno, l’esecutivo del Partito Comunista Italiano aveva una sede segreta che fu scoperta, per caso a Genova, con il conseguente sequestro di tutti i documenti lì custoditi.Quando poi, per disposizione del Governo, vennero sciolte tutte le compagini politiche con tutta una serie di provvedimenti eccezionali, si trattò, per il PCI di trasformare la propria semiclandestinità in clandestinità piena. Nel gennaio 1926, il PC aveva tenuto il suo Terzo Congresso a Lione (Gramsci vi fece la relazione politica); nei mesi successivi aveva assunto la tattica dei comitati di agitazione, aperti a tutti gli operai, con i motti: “controllo operaio” o “la terra ai contadini”. Tutti gli altri partiti sparirono completamente, per poi ricostituirsi “ex novo” all’estero, anche se con limitata efficienza. Il Partito Comunista mantenne, al contrario, un centro operativo interno (con le sue ramificazioni locali), relazionandosi costantemente con quello estero, diretto da Palmiro Togliatti a Parigi. Ciò spiega il susseguirsi di continui arresti ed di numerosissimi processi, tanto da suscitare l’impressione errata che, in Italia, di antifascisti non ci fossero rimasti che loro e da far dubitare che, a bella posta, il potere presentasse come comunisti tutti gli antifascisti generici processati dal Tribunale Speciale. Rimane assodato che, in quegli anni, l’azione comunista fu l’unica “pianificata” e di estensione nazionale.Ancora maggiore fu la sua preminenza, nel periodo iniziale di cui parliamo, – e fu mantenuta anche nel periodo successivo – per la rete di rapporti fra interno ed estero. Ci fu, in realtà, tutta un’organizzazione di emissari che, entrati in Italia dall’estero e in movimento nella penisola per il disbrigo dei loro incarichi, poi ripartivano. Erano forniti, ben più e meglio dei fuorusciti del Risorgimento, di documenti falsi e di ripostigli svariati, ove nascondere il contrabbando della propaganda. Quando il sistema funzionava in pieno, riuscivano a cambiare la propria identità per ben tre volte: all’entrata, nell’interno e all’uscita. L’attività comunista era cospicua, soprattutto nel triangolo Milano-Torino-Genova, con minori diramazioni in Friuli-Venezia Giulia e in Emilia. Era sensibile in Toscana, meno a Roma, scarsissima nel Mezzogiorno e nelle Isole.Le sentenze del Tribunale Speciale colpivano non solo azioni concrete, ma anche contatti e riunioni. Del resto, queste ultime, non erano vuote di effetti, non erano semplici conversazioni, ma forte ed estrema avversione al fascismo. E’ probabile che questa azione comunista abbia avuto una parte notevole nella resistenza passiva, mantenuta dalla classe operaia industriale, almeno da quella qualificata.Vi erano però, accanto e attraverso i contatti e le riunioni di cui si è detto, due azioni che andavano al di là di questi limiti. La prima era la diffusione della stampa occulta. Il primo numero della “clandestina Unità”, porta la data del 1° gennaio 1927, il secondo numero quella del 21 gennaio, il terzo del 5 febbraio. Se ne stampavano, in compenso, varie edizioni: per Torino, Milano e Roma. Si diffusero, nello stesso modo, l’”Avanguardia”, giornale della gioventù comunista, il “Battaglie Sindacali”, il “Galletto Rosso”, umoristicamente proletario ed altri aggiuntisi, man mano, ai primi. A Parigi, uscì, dal marzo 1927, la rivista ideologica mensile “Lo Stato Operaio”, diretta da Palmiro Togliatti. Nei primi mesi dello stesso anno, la diffusione di questo tipo di comunicazione sembrava aver raggiunto intensità ed ampiezza notevoli.Contemporaneamente, in particolare nell’Italia settentrionale, il Regime rispose con una lunga serie di attività di repressione, di perquisizioni e arresti. A Bologna, fu imprigionato un gruppo di operai, accusato di diffusione di stampa bandita; a Genova, un vecchio scaricatore di porto, sorpreso con una copia dell’”Unità”, fu arrestato e bastonato. Nel biellese, la polizia riuscì a mettere la mani addosso ad un certo Alberto Busca, ventiquattrenne, che si dedicava, con veemenza, alla distribuzione dello stesso quotidiano.Un altro dinamismo comunista, fu quello sindacale, che ricalcava le orme e l’eredità della disciolta “Confederazione Generale del Lavoro”. A Milano, il 20 febbraio 1927, si tenne una conferenza che aveva lo scopo di studiare e trovare le forze per ripristinarla. A tale evento, presero parte numerose organizzazioni sindacali, di fede comunista, socialista ed apartitiche. Fu dichiarata ricostituita la Confederazione e fu fissato il programma di organizzazione e di azione. Fu decisa la pubblicazione della rivista “Battaglie Sindacali” che, da lì a poco, venne alla luce. Secondo il PC, occorreva passare, dalla resistenza passiva alla difesa attiva, abbandonando il postulato ingannevole dell’apoliticità corporativista e connettendo strettamente l’attività sindacale con l’agitazione per l’unità proletaria. Conveniva, secondo questa ideologia, abbandonare l’idea che la caduta del fascismo sarebbe stata possibile solo per l’intervento armato dell’imperialismo francese. La guerra civile poteva portare alle masse la propria liberazione. Le cronache del primo semestre ’27, non sono scarse di notizie su agitazioni operaie, sospensioni dal lavoro, scioperi veri e propri (soprattutto nelle fabbriche torinesi, milanesi e di altri luoghi del settentrione), con l’intervento di operai agricoli. Si parla di comitati di agitazione formati contro le riduzioni salariali e a favore della riapertura delle principali Camere del Lavoro. Si racconta di una conferenza giovanile tenutasi a Savona, della ripresa delle celebrazioni del 1° maggio, con affissioni di manifesti ed innalzamento di “bandiere rosse”. Non si sa, comunque, con certezza, quanta parte di verità vi sia in queste notizie e quanta di esagerazioni e di zelo propagandistico. Le stesse voci parlano anche di uno “sciopero bianco”, a Torino nel giugno 1927, fatto cessare dalla Milizia. Si racconta di arresti operati (nella stessa data) alla Compagnia Generale di Elettricità, a Milano; di operai accusati di aver sobillato un movimento di protesta, contro la diminuzione dei cottimi. E’ consistente la notizia, all’inizio di quell’estate, dello sciopero delle “mondine”, nelle provincie di Vercelli, Novara e Pavia, organizzato, sembra, da “agit-prop” (agitatori politici) del PC e della rinata Confederazione del Lavoro. Nel giugno, l’Ufficio Politico del Partito Comunista ebbe ad affermare che il funzionamento delle organizzazioni locali non era sempre soddisfacente. E’ dei nostri tempi la scoperta che la pubblicazione ufficiale “Trenta anni di vita e lotte del PCI” parla di deficienza di preparazione e di organizzazione, nell’adattarsi alla allora nuova situazione. Soprattutto si condanna il fatto di non aver portato subito il fulcro del lavoro clandestino nelle file stesse del “nemico”, in seno alle organizzazioni di massa, istituite e controllate dal potere fascista, combinando l’operato illegale con quello legale. Anche in questi postumi “mea culpa”, non è facile intuire quanto possa esserci stato di contrasto interno. Arresti e processi, portarono considerevoli colpi all’organizzazione. Ne seguì, certamente, una disorganizzazione anche dei collegamenti, fra attività in patria ed attività estera. Inizialmente si cercò di reagire, ma lo scoramento avvenne proprio nell’organismo interno, retto da Ignazio Silone, la cui fede politica aveva subito, nel maggio del 1927, una forte scossa, durante la partecipazione ad una riunione dell’”Internazionale Comunista”, a Mosca. Ed allora, fu realmente la fine.

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