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Sì in pensione prima, ma spendendo molto meno

Roma. Da una settimana Matteo Salvini e Luigi Di Maio stanno discutendo, litigando, cercando una soluzione positiva al messaggio più importante che, sabato scorso, il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, ha riservatamente affidato al Capo del Governo, Giuseppe Conte, nel corso di una cena ufficiale, a Bruxelles. Il senso del messaggio,sviluppato fra una portata e l’altra, è stato questo: “cari italiani, la questione più seria nella vostra legge di bilancio non è il reddito di cittadinanza. L’aspetto più indigesto della vostra manovra”, ha spiegato Juncker, “la controriforma previdenziale e questo fa presupporre un’insidia strutturale alla sostenibilità del debito italiano. La Commissione Europea è preoccupata che un passo indietro così radicale, nell’età pensionabile, potrebbe dar corpo ad un “modello italiano”, come l’inizio di un contagio, capace di innescare processi politici in altri Paesi dell’Unione, dove il problema dell’invecchiamento della popolazione e dei suoi costi è persino più grave”.
Quindi Certo, Juncker appare preoccupato per un possibile indebolimento dell’Italia e di un effetto-contagio (in questo caso finanziario) in tutta l’Unione. Esattamente quel che accadde nel 2011: allora il governo Berlusconi cadde sulle pensioni per mano della Lega. Incalzato dalla Commissione e dalla Banca Centrale Europea, l’allora presidente del Consiglio mise in cantiere una riforma che intaccava quelle di anzianità. La Lega di Bossi e Maroni si mise di traverso e non consentì un intervento che, come dissero i leghisti di allora, avrebbe colpito al 65% i lavoratori settentrionali. Morale: il governo cadde e di quella riforma si dovettero far carico Mario Monti ed Elsa Fornero.
Oggi per il Governo, e in particolare per la Lega (che su “quota cento” ha costruito gran parte del suo successo elettorale), trovare una via d’uscita è obiettivamente difficile. Mentre sul reddito si possono costruire svariati compromessi, sulle pensioni il rischio “flop” è altissimo. La missione impossibile è affidata al Ministro Giovanni Tria, che in questi giorni ha chiesto alla struttura tecnica del Tesoro di mettere a punto ipotesi meno costose rispetto all’uscita anticipata (e senza penalizzazioni) per tutti i sessantaduenni con almeno trentotto anni di contributi. “Spenderemo meno del previsto”, fa sapere il sottosegretario leghista Claudio Durigon. In realtà, l’obiettivo minimo delle nuove simulazioni è, quantomeno, di rispettare il budget dei 7 miliardi (6,7 il primo anno) finora stimati.
La soluzione passa attraverso la correzione attuariale degli assegni. Di fatto si tratta di non riconoscere, per il periodo di uscita anticipata (ovvero fino a un massimo di cinque anni), la rivalutazione della pensione nella parte calcolata con il metodo retributivo, abolito del tutto dalla riforma Fornero. Con più chiarezza: per ogni anno di riposo in più, il pensionando rinuncerebbe al 3% della pensione, fino ad un massimo del 12%. Non è poco, ma molto meno dei numeri forniti dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che aveva ipotizzato tagli fino al 30%. È ovvio che, in caso di uscita anticipata, si pagherebbero meno contributi e la pensione sarebbe più bassa.
Nelle nuove stime di Tesoro e Ragioneria, considerate le più corrette, si valuta la riduzione a parità di contributi versati. E in questo caso non sarebbe, appunto, superiore al 12%. Per rendere più digeribile questo taglio, i tecnici consigliano al governo di rinunciare anche al divieto di cumulo, la cui evidenza empirica non dimostra nessun “effetto sostituzione” con i più giovani e, anzi, rischia di creare sacche di lavoro in nero, non nuovi posti.

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