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L’inchiesta su Caporetto, una nuova disfatta!

All’indomani della tragica sconfitta, fra i postumi dell’annosa lotta interventistico-neutralistica, quello della polemica intorno alla relazione sui fatti di Caporetto fu indubbiamente l’epilogo più tristemente grave, poiché si peccò da ambo le parti, senza arrivare, in realtà, a nessuna conclusione.
La relazione sul “Ripiegamento dall’Isonzo al Piave”, richiesta a gran voce dal Parlamento fu pubblicata ufficialmente il 13 agosto 1918, ma i risultati avevano già dilagato nella stampa. La commissione, composta di militari e parlamentari, si era trovata di fronte alla tesi, largamente sposata dall’opinione pubblica, che la disfatta di Caporetto rappresentasse essenzialmente il risultato di un “infiacchimento e pervertimento” di larga parte dell’Esercito e, prima di questo, della Nazione, dovuti alla propaganda neutralistico-disfattista, non repressa adeguatamente dal Governo e, più precisamente, dal Ministro dell’Interno, Vittorio Emanuele Orlando.
Le conclusioni dell’inchiesta, invece, dicevano che la tragedia di Caporetto era il risultato, in parte di circostanze esterne eccezionali, in parte di errori di pochi, nella condotta tecnica della guerra e in quella morale delle truppe.
Tali deduzioni cercavano, di per sé, di ottenere la rivalutazione dell’Esercito e del popolo italiano e di riabilitare quei settori del mondo istituzionale (giolittiani, socialisti, neutralisti in genere), che erano stati accusati, infamati e quasi proscritti, sotto l’imputazione di disfattismo e di tradimento nazionale. Posto che queste accuse fossero state fatte in buona fede, i delatori avrebbero dovuto dichiararsi, a questo punto, soddisfatti della loro proclamata insussistenza. Aspettarsi ciò sarebbe stato ingenuo ottimismo, dato il naturale amor proprio trasformatosi in legge di conservazione vitale. Tanto più che la riabilitazione politica e morale degli uni rischiava di risolversi in condanna politica e morale degli altri, i primi a spingere nel senso di tale risoluzione, essendo i vinti di ieri, aspiranti a divenire i vincitori di oggi.
C’era, al di là dei sentimenti e dei risentimenti personali, una posta molto alta in gioco. Gli interventisti avevano sostenuto, per la gestione del conflitto, criteri autoritari che avrebbero desiderato, sia pure con qualche rivisitazione, applicare anche in tempo di pace. L’opposto volevano i neutralisti o almeno la parte di coloro che non era dominata da criteri e ideali ultraconservatori.
I due principali principi di neutralità, tuttavia, realizzavano il trapasso in maniera assai differente. Il neutralismo socialista, interpretato principalmente dall’”Avanti!”, fu guidato soprattutto da quello spirito negativo che caratterizzava l’azione, o l’inazione, del Partito. Si trattava di infamare e demolire il più possibile il “militarismo” e, con esso, tutto l’ordinamento borghese. Il neutralismo liberale, invece, rappresentato essenzialmente da “La Stampa” (del Senatore Alfredo Frassati, giornalista e politico di primo piano, che ebbe così l’occasione di affermare la sua vigorosa personalità), pure indulgendo umanamente, ma anche eccessivamente, al desiderio della rivincita, era ispirato da un’idea politica positiva: quella di un rinnovamento profondo della vita italiana, nel senso di una democrazia progressista, liberale e sociale.
Mesi prima che finisse la guerra, il quotidiano aveva lanciato l’idea (31 maggio) che la differenziazione futura dei partiti politici in Italia dovesse avvenire sui problemi della ricostruzione ed aveva iniziato a pubblicare una serie di articoli in proposito. Secondo il giornale, per una fattiva ricostruzione occorreva eliminare quegli uomini che avevano voluto la guerra fino in fondo, cioè gli stessi che, precedentemente, avevano sostenuto una politica antiliberale. Così, dal 29 luglio al 10 agosto 1919, la testata torinese uscì con una “collana”, a puntate, dal titolo “Come ci avviammo a Caporetto”, col chiaro intento di montare un’acerba, forse troppo acerba, requisitoria contro il periodo Cadorna, specificando dettagliatamente le sue responsabilità e quelle dei suoi sostenitori ad oltranza (il più focoso era stato il “Corriere della Sera”), i quali lo avevano contrapposto e sovrapposto al Governo e al Parlamento. Il “Corriere”, a sua volta, aveva criticato duramente le conclusioni e i metodi della citata relazione, giudicandola parziale, interessata e diretta unicamente alla difesa di Orlando, non risparmiando, nelle feroci critiche, gli “avvelenatori” che ne approfittavano.
Replicava “La Stampa” che antipatriottici erano, in vero, coloro che avrebbero voluto coprire le proprie e le altrui mancanze, attribuendo Caporetto al disfacimento morale dell’Esercito e della nazione, piuttosto che agli errori di pochi uomini.
Insomma, se “La Stampa” eccedette nella revisione critica dell’interventismo e della politica di guerra, il “Corriere della Sera” gli fornì pienamente l’attenuante specifica della provocazione, con un linguaggio fazioso fino alla calunnia, adoperato poi per mesi e mesi, dopo la fine delle ostilità, contro gli ex-neutralisti, in generale, e contro Giolitti, in particolare. Il risultato fu la divisione nemica, durata ancora per anni, fra i due maggiori organi di stampa italiani, a tutto scapito della causa liberale, che si intersecò con quella fra “nittismo” e “giolittismo”.
Rientrava, in pieno, nella logica della situazione di allora, la polemica parallela tra l’”Avanti!” (che parlava di “Caporetto, pagina d’infamia, la colpa dei grandi gallonati scontata dai figli del popolo) e “Il Popolo d’Italia” (che appellava gli “sciacalli di Caporetto”). Accanto al suo generico piglio demolitore, la campagna dell’”Avanti!” mirava ad ottenere l’amnistia per quei disertori che non avevano potuto fruire del “Decreto Orlando”, del 21 febbraio 1919, date le varie restrizioni dello stesso. Sulla necessità di eliminare quasi tutte quelle limitazioni, il governo e le autorità militari, ad iniziare da Armando Diaz, si trovarono facilmente concordi, tanto più che per opera dei disertori, esclusi dal provvedimento sanatorio, stava sorgendo, in alcune zone, un nuovo brigantaggio.
Il decreto-legge 2 settembre 1919 comprese, pertanto, tutti coloro la cui diserzione non era stata più lunga di sei mesi, esclusi il reato di “diserzione con passaggio al nemico” e quello di “diserzione armata”. Furono anche amnistiati altri reati militari, commessi durante il conflitto, quando la loro pena spettante non fosse superiore a dieci anni. Fu questa la famosa “grazia dei disertori”, tanto infamata più tardi, ma che, allora, non suscitò tangibili reazioni nella pubblica opinione. Benito Mussolini fu tra quelli che l’approvarono. Disse, infatti, che “il concetto che ha informato i quattro decreti è stato quello di raggiungere la pacificazione sociale, senza menomare i diritti e i doveri di conservazione della Patria”.
Al decreto di amnistia per i reati militari, ne seguirono a catena altri tre, in pari data, per reati comuni, reati finanziari, unitamente ad un condono, di pene disciplinari, al personale delle Ferrovie dello Stato (per partecipazione a scioperi). Con analoghe motivazioni, il 2 settembre di quello stesso anno, fu firmato l’indulto a favore di alcuni postelegrafonici.
Insomma, Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri, si sforzò di fare opera di pacificazione, di mettere una pietra sul passato. E così come decise per un’amnistia amplissima, subito dopo, nella discussione alla Camera dei Deputati sulla relazione di Caporetto (6-12 settembre 1919), frenò i contrasti, limitando la punizione delle responsabilità ai provvedimenti già presi, cioè il “collocamento a riposo” di Luigi Cadorna e di Carlo Porro e il “collocamento a disposizione” di qualche altro generale.
Alla fine, tanto rumore per nulla! Solo in pochissimi pagarono, anche per colpe non proprie. Ma si sa, chi comanda non può sbagliare. Questo si diceva un tempo e si dice tuttora.
Ma è proprio così? Perchè, in molte circostanze, anche attuali, non sembra proprio!

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