Il “Pirandello dimenticato”

“Ciò che conosciamo di noi è solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa”.
Così Luigi Pirandello scriveva in “Novelle per un anno”, una vasta raccolta che comprende circa 250 racconti realizzati tra il 1884 e il 1936, con lo scopo di condurre il lettore nella narrazione quotidiana della vita, fotografandone i frammenti.
Non fu però solo la scrittura novellistica a portare sulla via del successo il letterato siciliano, questi in una lettera al padre scrisse: “Oh il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene”, teatro che sarà rivoluzionato dal drammaturgo, contrapponendosi alla finzione catartica aristotelica, in quanto per Pirandello la vita è essa stessa una finzione.
Nato a Girgenti, l’attuale Agrigento, nel 1867, studiò lettere a Roma per poi laurearsi a Bonn in glottologia. Fatto ritorno a Roma iniziò la collaborazione con scritti critici e poesie per alcune riviste dell’epoca.
La visione cupa della vita, a tratti sarcastica arrivò a seguito di numerose disgrazie: la prima dovuta alla grave crisi finanziaria per la perdita della miniera di zolfo di proprietà paterna, la seconda per la schizofrenia della moglie ed infine la grande mancanza del figlio partito per la guerra creò in lui un vuoto incolmabile. La vita che egli definì una “pupazzata” gli regalò invece magnifici nipoti tra cui Pierluigi Pirandello, ultimo erede della famiglia, scomparso lo scorso mese di marzo, che nel suo libro, “Il Pirandello dimenticato”, edito nel 2017 da De Luca Editori d’Arte, insieme ad Alfonso Veneroso racconta la vita di un nonno illustre e di un padre affettuoso. Un libro che conduce il lettore in un viaggio attraverso tre generazioni, racconti d’infanzia e pagine sofferte, nel quale è evidente la percezione della famiglia intesa come una “trappola”, similmente all’omonima novella di Pirandello, in cui il protagonista Fabrizio esprime la sua visione della vita. Il rapporto familiare visto come una disgrazia inflittagli dal proprio padre, si trasforma nel libro di Pierluigi invece in uno γνῶθι σεαυτόν (conosci te stesso) socratico, indispensabile nei rapporti relazionali e nel mantenimento della propria indole a dispetto di un ambiente familiare e di un cognome che a detta dell’autore “ha pesato e pesa sulla famiglia come un macigno”. Una consapevolezza delle proprie inclinazioni che secondo il drammaturgo siciliano insignito del premio Nobel, manca nella società e nell’uomo che quindi si scinde in “forma” e “vita” diventando “uno, nessuno e centomila”.

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